Playa quemada

La flor azteca

Los monstruos del Riachuelo

El amor enfermo

Marvin

Auschwitz

Adiós, Bob

Playa quemada

La fe ciega

Auschwitz

El Corazón de Doli

La otra playa


7.06.2024

IL FIORE AZTECO / PRIMA PARTE

 UNDICI ANNI


     Sono un ragazzino che ha le mani piccole.

   Gli oggetti di magia che utilizzo sembrano progettati in scala diversa, per mani adulte. I palloncini mi scivolano, le carte mi cadono quando cerco di metterle insieme, le palline da ping pong girano senza moltiplicarsi tra le mie dita sottili e rimbalzano a terra.

     Ho anche, quando entro in scena, il cuore che batte forte come se avessi la febbre.


     Lo sguardo del pubblico è come quello dei riflettori, solo che tutti stanno attenti. Cercano di indovinare il trucco. Per questo mi stupisce la magia. Invidio l’idea di non sapere come si fa, di stare dall’altra parte supponendo che ci sia un inganno che non scoprirò. “Niente da questa parte, niente da quest’altra”; e io che so che non è vero; lo intuisco.

     Lo spettacolino è organizzato nel garage di casa, davanti al pubblico che è la gente del quartiere. Ho undici anni e vivo con mia nonna. Stringo con forza la bacchetta magica. Nonna riposa in mezzo a tutti i presenti, rilassata su una sedia a dondolo. Ha un cavo con un interruttore sulla sua gonna. I ragazzi sono seduti a terra davanti a me. In fondo ci sono alcuni vicini, della mia età, che giocano a darsi delle spinte. Ultima, in un angolo, María Marta, che ha compiuto quindici anni l’altra settimana e mi ha invitato a ballare alla sua festa. La bacchetta magica è un manico di scopa dipinto di nero e rivestito sulle punte con carta argentata. Dalla mia mano sinistra pende la silhouette di un pesce, ritagliata da un foglio degli annunci del quotidiano La Nación. Ho legato il pesce per la coda. Dico, impostando la voce (una voce speciale per María Marta, che si appoggia così sinuosa alla parete del mio garage; con la spalla, con un braccio, con i fianchi):

     ーSignore e signori, vorrei raccontare loro la storia di un pescatore…

     La nonna attenua la luce.

     —...che pescò dalle acque un pesce di queste dimensioni. Hanno visto, loro, qualche volta un pesce così grande?

     La silhouette rappresenta un pesce medio, della lunghezza massima consentita dalla diagonale del foglio di giornale, In realtà avevo visto pesci più grandi nella pescheria, o almeno di quella dimensione, ma la novità consisteva nel modulare la voce perché sembrasse il pesce più grande del mondo. I ragazzi dicono: “Sììììì”, gridando. Sono irrequieti e si muovono nella penombra come animali ciechi sotto una coperta.

     ー”Per me non è così grande” dissi al pescatore, e lui si ricredette. “Giovane, mi rispose, ha ragione. A voler essere sincero, credo che in fondo non fosse così grande”.

     Piego il pesce a metà, poso la bacchetta sul leggio e afferro un paio di forbici. Mi accingo ad accorciarlo tagliando un pezzo, e María Marta chiede a voce alta, dal fondo, lanciando la domanda come una freccia:

     ーPerché parla così ricercato questo ragazzino?

   È in piedi; la voce arriva chiara e forte. La nonna e alcuni ragazzi si voltano.   Lascio cadere il pezzo di carta a terra, prendo il pesce soltanto per la coda e lascio che si distenda. La silhouette si dispiega e mantiene la sua forma di prima.

     ーAncora stupito ーdico, incoraggiato dalla buona riuscita del truccoー, mi rivolsi al mio signor pescatore con queste parole: “Valente cavaliere, è un fatto, mi sembra ancora molto grande”.

     ーChe stupidaggine…

    Lei cerca ancora di interrompere, senza averne diritto. Il libro di magia è importato dalla Spagna. Ho imparato a memoria tutti i dialoghi, ogni battuta, ogni gesto indicato nei volumi della Jackson, per ore e ore, e devo sopportare le sue offese?

   La guardo male, con occhi cattivi. Che vuole quella maleducata, la figlia del falegname? Era già tanto se l’avevo invitata, lei e suo fratello, che ha quasi la mia età ma non sa neanche ballare; María Marta fa spallucce, come se non le importasse. Io piego di nuovo il pesce, taglio un altro pezzo e lo faccio scendere. Appare di nuovo intero, ma più piccolo. Avevo passato tutta la sera a incollare la parte posteriore del foglio perché si vedesse sempre intero. Durante le prove ero riuscito a ottenere l’effetto giusto quasi tutte le volte.

    ー”Come le sembra?”, osò domandarmi il pescatore. “Male, signor salame. Non sarò certo vittima del vostro inganno. Il pesce era più piccolo.”

      Lo piego per fare l’ultimo taglio e María Marta grida: “BUUUU”. Anche i bambini si girano. La nonna aumenta un po’ la luce.

       ーChe succede? ーle dico.

       ーParla da cristiano, salame ーgrida.

       Il coro dei bambini ripete: “sa-la-me, sa-la-me”. Guardo verso nonna e intuisco che anche lei sta pensando lo stesso, perché spalanca la bocca per evitare una risata. Le dico che, per favore, abbassi di nuovo la luce. Faccio pressione sui pezzi di carta, la testa e la coda del pesce una sull’altra, molto forte, perché s’incollino su un pacchettino piegato a fisarmonica che, da prima dello spettacolo, era nascosto dietro la testa. Il pacchetto è una specie di organetto che simula le vertebre e le spine del pesce. Il senso del trucco è quello di accorciare il corpo fino a che non rimanga quasi niente, e alla fine far dire al pescatore, fermo nella sua testardaggine: “L’ho mangiato per cena, e so di sicuro che era di questa dimensione, sebbene voi non lo crediate”. 

     A questo punto faccio scivolare lo scheletro, come una ghirlanda, fino a terra. Le spine attaccate alla coda e alla testa avrebbero fatto un’impressione straordinaria, soprattutto ai bambini. E il discorso era pensato proprio per la nonna, che era spagnola e le sarebbe piaciuto più del linguaggio che usiamo noi in strada. Anche se suonava strano in bocca a un bambino porteño di periferia. Perché era la lingua vera, quella dei libri e in particolare quella de L'Apprendista Mago, volume I della  Biblioteca de Juegos e Ilusionismo di Barcellona; una lingua degna di essere pronunciata davanti a un pubblico. Questo era lo spettacolo, anche se a María Marta sembrava una stupidaggine di un “salame”.

     Lascio cadere il pesce mentre guardo verso l’angolo opposto ai suoi occhi. Voglio scappare via, uscire dalla luce dei fari che mi illuminano rendendomi ridicolo, che mi sottomettono a questa umiliazione, a questa piccola ma enorme umiliazione dello scheletro che non si attacca alla coda, che si blocca a metà della piegatura e si rompe, che mi lascia con una pinna in mano e una minuscola spina che pende, indifesa. La testa del pesce cade a terra con quel che resta del pacchetto.

     Loro applaudono lo stesso. Come se non avessero cercato altro che passare un po’ di tempo. La nonna ride, tenendosi la pancia. Sembra un’indovina con la sfera di cristallo che va avanti e indietro nella sedia a dondolo.

     ーAndate via ーgrido a tutti, arrabbiatissimo. Tutti tacciono.

   Continuo a gridare. Il calore attraverso gli occhi mi arriva al cervello. Sono   violento  come soltanto un mago di undici anni può esserlo.

      Due vicini cercano di aiutare nonna ad alzarsi, ma lei non smette di ridere. Uno dopo l’altro lasciano il garage. Alla fine rimaniamo María Marta, suo fratello e io. Lei si avvicina fino a che ci separa soltanto la distanza di due mattonelle.

     ーVai via ーle dico, e mi copro la faccia con le mani.

     ーNon c’è niente da piangere ー. La sua voce è una carezza soave.

     Perché le importava come dicevo le cose? Quello che contava era ciò che stavo facendo, la magia stessa. Trasformare un pesce in uno scheletro di pesce “per condividere un momento gradevole e alleviare la noia degli spettatori”.

     ーVai via ーripeto, ma lei si avvicina di una mattonella. Mi appoggia una mano in mezzo alle gambe, sui pantaloni buoni che metto per andare a scuola. Carlitos è dietro; si è messo in testa un cappello di cartoncino nero e fa lo spadaccino con il manico di scopa.

     ーChe fai? ーle dico.

   Sento il tepore che nasce da quel movimento primario, da quella specie di   impasto lievitante che lei provoca. Sento quel calore crescere dentro la sua mano e mi abbraccio a lei per non disperderlo, per catturarlo perché a un certo punto finirà per sparire, come tutte le cose. È bello; è dolce. Accosto il mio viso sui rigonfiamenti della sua maglietta e immagino la stessa musica del suo compleanno. Un valzer. L’altra sua mano sulla mia spalla; il suo profumo; i suoi capelli. Il suo dubbio di un secondo; il suo passo indietro che fa comparire sul pavimento una mattonella, due. La sua voce che mi parla di nuovo dolcemente, come se si scusasse per smettere di ballare.

     ーHai visto che anch’io conosco qualche trucco ーdice.

     Sorride come una ragazza grande.

    ーQuello che ti manca è una partner ーaggiungeー, come quella dei maghi della televisione. Il fiore azteco che nomina sempre mio padre.

     Suo fratello sbatte la bacchetta sul leggio che io stesso ho costruito con il legno delle cassette di composta di patata dolce, seguendo le istruzioni della rivista Lúpin. Gli afferro al volo il cappello di carta.

     ーDonne no.

     Lei alza le spalle, trascina Carlitos per un braccio ed escono senza far rumore. Rimango di nuovo solo con i miei trucchi per terra, le sedie rovesciate. Le mutande umide.


(Traducción Gianni Barone)

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1.22.2024

EL SOL SE ALEJA DE LA TIERRA

El aire no corría por más que las ventanillas estuvieran abiertas. Veíamos pasar los camiones y jugábamos a las patentes, a adivinar los números. La cinta de la ruta largaba humo, de tan caliente. Adentro del Dodge era peor. La canícula había alcanzado la cabeza de mi padre, que venía enojado desde Buenos Aires. Mamá había tardado mucho con las valijas; “siempre las dejás para último momento”. Él pegaba portazos, largaba puteadas, gritaba. A todos. Para que nos levantáramos, para que lo ayudáramos a cargar las cosas en el baúl. “¡Son las nueve de la mañana! No parecen hijos míos”. Yo tenía la cara llena de lagañas cuando me tironeó para que dejara el café con leche. “¿Te parece un buen ejemplo para las chicas, quedarte ahí sentado sin hacer nada?”.

- Estoy tomando la leche -protesté, cuando él salió de la cocina.

Mi hermana Fernanda subió los hombros y se levantó a lavar las tazas. Tiró el desayuno por el desagüe de la pileta. La única que lo había tomado entero era Machi. Mala señal antes de un viaje largo.

Todos los años íbamos al mismo lugar de vacaciones. Necochea y sus playas repetidas. Yo ya tenía diez, lo que significaba que al menos había ido veinte veces, la mitad en vacaciones de invierno, la mitad en verano. Odiaba Necochea. Parecía ser el único lugar en el mundo, en el que papá había nacido y en el que se iba a morir, y al que pensaba arrastrarnos hasta entonces. Fernanda, con ocho, ya demostraba su desinterés con cara de malhumor: no iba a ser arrastrada por muchos años más. Su mejor amiga del colegio había estado en Disney y en Florianópolis.

Era mediodía cuando empezamos a jugar. Machi venía sentada entre nosotros, en el asiento de atrás. Todavía era chica para leer los números en las patentes que pasaban. Carlos, el bebé, iba en los brazos de mamá. Papá golpeaba sus manos enfurecidas sobre el volante.

- ¿En el termo pusiste café?

- Agua para el mate.

- Te dije que prefería café. Te importa un carajo que yo sea el que maneje.

Mamá subió los hombros. Carlos empezó a llorar y ella se desprendió el corpiño para darle la teta. El mate estaba cargado con yerba, esperando sobre la puerta de la gaveta, abierta como una mesita.

- Seis -dije.

- Siete -dijo Fernanda.

El camión iba bastante adelante.

- ¡Cinco! -grité, cuando corroboré el último número. - Gané.

- Si no acertaste, tonto.

- Pero estuve más cerca.

Machi pidió de jugar al veo-veo, y mamá le dio la razón. “Si no, ella se aburre”. Agregó: “Pobrecita”. Fernanda levantó los hombros. No le importaba que Machi se aburriera. No le importaba nada. “Jueguen un poco con su hermana”. Fernanda agarró una de las revistas de “Sal y Pimienta” que habíamos canjeado para el viaje. Me pasó “El Tony”.

- Abandono, canté pri -dijo.

La cara de papá seguía fruncida. Mamá intentó encender la radio. Él la apagó.

- Tampoco es que me estés dejando ser una buena copiloto -dijo ella.

- Lo que tengo que escuchar...

El Dodge bajó la velocidad y se pasó a la banquina; paró. Vimos a papá -lo vi- mirarse los pantalones, como si se hubiera meado encima. Sus manos no soltaron el volante. Parecían soldadas al forro de cuero que había comprado en el ACA de Dolores, y que ponía exclusivamente para viajar a Necochea. Así estuvo un minuto sin moverse, como si fuera una bomba a punto de explotar.

- ¿Qué? -preguntó mamá, como si se hubiera perdido de algo.

Yo miré a Fernanda. Ella ya me estaba mirando. Machi tenía los ojos cerrados.

- Voy a matar unos pájaros -dijo él.

Abrió la puerta y se bajó. Fue hasta el baúl, sacó la escopeta y una caja de balas. Al lado del auto, mirando hacia lo lejos -hacia el día-, cargó nerviosamente. Señaló un arbolito que había como a quinientos metros, con la punta del rifle.

-  Antes de matarlos a ustedes -amenazó.

Y se largó a caminar, secándose el sudor de la cabeza. Se agachó para pasar el primer alambrado y luego, a unos doscientos metros, se volvió a agachar dos veces más. Iba, efectivamente, hacia el único árbol de todo el campo. Vimos cómo unos pájaros se posaron a esperarlo, en las ramas de arriba.

Mamá se inclinó para cerrar la puerta que él había dejado abierta y Carlos berreó, incómodo.

- ¿En serio va a cazar pajaritos? – preguntó Fernanda.

- Hay que dejarlo -contestó mamá, como única explicación. -Que se le vaya la locura que tiene.

- ¿Y nosotros, mientras?

- Lo esperamos cantando.

Empecé a entonar “La pájara Pinta”, de María Elena Walsh.

- …una bala le mató el canto, y era tan linda su canción…

Fernanda se rio y Machi me pidió la ventanilla.

- Sobre mi cadáver, nena.

- Déjenle la ventanilla a su hermanita. Un rato, nomás.

- No -me empeciné.

- Un rato cada uno -insistió mamá.

Machi dijo que tenía ganas de vomitar. No le creímos. O nos hicimos los que no la oíamos. Mamá cambió a Carlos a la teta izquierda, acomodándose las tazas del corpiño. Buscó en la radio un programa de música clásica, de esos aburridos que tanto le gustaban.

- Veo, veo -dijo Fernanda.

- ¿Qué ves? -le contesté.

- Una cosa.

- ¿De qué color?

- Rojo.

“El sonajero de Carlos”, dijo Machi. “No”. “Ese auto que pasó”. “Mi pollera”, aportó mamá. “Tampoco”.

- La sangre de los pájaros -dije.

Fernanda sonrió. Había acertado. Machi se le subió a la falda para sacar la cabeza por la ventanilla. Hizo dos arcadas y Fernanda la zamarreó para que se le saliera de encima. Machi volvió a entrar secándose la boca con la remera. Una baba amarilla le asomaba por una comisura.

- ¿Estás bien, hija?

Mamá le pasó la botella de agua fría. Machi la destapó y tomó un trago del pico. Algo había quedado pegado; cuando trató de limpiarlo con la mano se fue para adentro de la botella.

- Sos una asquerosa -dijo Fernanda.

El pegote se deshizo en varias hebras. Se me revolvió el estómago.

- Se ven los pescaditos al trasluz, no lo puedo creer.

Nos reímos. Le pedí a mamá que vaciara la botella por la ventanilla, pero ella no había traído otra.

- Y el agua no se derrocha -agregó. Volvió a guardarla en la heladera de telgopor.

A lo lejos sonó el primer disparo. Miramos, pero no alcanzamos a distinguir nada. Tal vez estuviera detrás del tronco. O subido.

- Veo, veo -recomenzó Fernanda.

- ¡Benteveo! -acoté, saliéndome de programa.

- Muerto -agregó ella.

Machi se agarró la panza. Mamá le dio un pañuelo para que se terminara de limpiar. Fernanda me sacó “El Tony” de las manos y lo guardó en la bolsa de plástico junto con su propia revista de historietas. Me imagino que para que no se ensuciaran cuando Machi nos vomitara encima lo poco de desayuno que todavía le podía quedar en el estómago. Otro disparo. Dos.

- No sé para qué tomás la leche antes de viajar. Siempre lo mismo, nena -protestó Fernanda. Me indicó para que mirara la baba que había quedado al lado del botón de seguridad de la puerta. Puse cara de asco.

- No es mi culpa si me siento mal.

- Sos una pajarona -le dijo Fernanda.

Me reí y Machi hizo un puchero. Un segundo después estaba llorando.

- Me dijo pajarona…

Mamá trató de suavizar el entredicho, pero fue peor.

- No es ningún insulto, pichoncita…

- ¡Pinchoncita! -grité. Fernanda largó la carcajada.

- Bueno, chicos, paren.

Mamá se puso seria. Separó a Carlos de su pecho y le dio unas palmadas en la espalda. Carlos eructó, y el olor del bebé se vino a juntar con el aroma enrarecido y caliente del asiento trasero. Tal vez no era un gran olor, pero nosotros, con Fernanda, sabíamos que estaba.

- Lo voy a cambiar -dijo mamá-. Me parece que se cagó.

- Lo que nos faltaba -opiné.

Mamá bajó mirando hacia atrás por el espejo. No pasaba nadie. Aunque hubiéramos querido jugar a adivinar patentes, no ha

Habríamos podido. La ruta contribuía a nuestro aburrimiento.

Ella puso un toallón sobre el capot caliente del Dodge. Ubicó a Carlos en el medio. Con rapidez le quitó el pañal enmerdado.

- Veo, veo marrón -dijo Fernanda. Machi se limpió los mocos en el pañuelo que se había pasado por la cara.

Con la misma rapidez mamá limpió el culo de mi hermano con un paño Johnson que sacó de su cartera y desempaquetó un pañal limpio, quitándole la faja con el precio. Metió los residuos adentro de una bolsa de nailon, la anudó y la arrojó a la cuneta de enfrente. Lo más lejos que pudo del auto. Desde donde estábamos, la bolsa dejó de existir porque no se veía. Machi buscó nuevamente la botella y nos la enseñó, como convidándonos un trago.

- Jamás voy a tomar de ahí, ser inmundo -le aclaré.

- Ni yo -agregó Fernanda.

Se hizo un buche con otro trago del pico. A mí me pareció que nuevas partículas de vómito se juntaban con las anteriores. Machi volvió a subirse a la falda de Fernanda para lanzar el agua por la ventanilla.

- ¡Basta, nena!

Parte del agua escupida cayó, con el empujón, sobre la bolsa de las revistas.

- No iba a devolver en la botella…

- No quiero que te subas más. Usá la de él.

Fernanda señaló mi ventanilla. Yo empecé a subir el vidrio. El nuevo tiro nos sobresaltó. Había sonado más cerca esta vez.

- Veo, veo y todo lo demás.

- Hay que decirlo entero -se quejó Machi.

- Vos no opinás, pichoncita

- Dejen tranquila a su hermana -intervino mamá.

Se había quedado mirando hacia el árbol, con una mano como visera. Estuvo un rato así, antes de decidirse por volver al auto. Tenía el cuello mojado de sudor. Dejó a Carlos sobre el asiento, envuelto en el toallón. Agarró un trapo rejilla y salió otra vez. Dio toda la vuelta hasta la puerta de Fernanda. Limpió la chorreadura de vómito de la manija y la chapa. Ya estaba casi seca.

- Puaj -se quejó Fernanda, asomándose. Sobre el pasto de la banquina había un charco-. ¿La laguna queda ahí? Tiene cositas…

- Las va a absorber la tierra.

Después mamá buscó la botella para enjuagar el trapo. Tiró algo de agua para refregarlo y otro poco más sobre la puerta. Le pedí que la tirara toda.

- Es potable -dijo ella, como toda explicación.

- Ya no -agregué.

Carlos se quejó con el siguiente disparo.

- …una cosa, qué cosa, maravillosa, de qué color… -Machi trató de distraernos.

- Transparente -dijo Fernanda. 

- Trasparente no sirve.

Sonó otro tiro. Otros.

- Transparentes son esos disparos.

- Para nosotros -dijo Fernanda-. Para los pájaros son negros.

Y después dijo que no quería jugar más.

- Canté pri.

- ¿Qué era lo rojo, al final, que él inventó que era sangre? -preguntó mamá, metiéndose de nuevo en la cabina. Se aseguró de que la tapa de la heladerita estuviera bien encajada y metió el trapo mojado en una bolsa.

- No sé -contestó Fernanda-. No me acuerdo.

Carlos empezó a roncar despacio. Mamá se secó las manos en su pollera y volvió a agarrarlo. Lo miró con dulzura; lo acunó. Machi hizo otras arcadas, pero no pasó de ahí.

Nos callamos cuando lo vimos venir. Traía la camisa abierta. Un costado se le había salido del pantalón. Casi se cae cuando se agachó para sortear el último alambrado. Estaba muy transpirado. Tenía grandes aureolas grises debajo de los brazos. La nariz y las entradas del pelo, coloradas. Mamá apagó la radio. Solamente se escuchaban los ronquidos suaves del bebé. Me fijé en el reloj del panel de instrumentos: había pasado casi una hora;.

Papá solamente traía la escopeta. Ni un pájaro. Me alegré.

- ¿Mataste muchos? -le preguntó Fernanda.

Cuando fue hasta el baúl a guardar el arma, pisó el charquito que se secaba sobre el pasto de la banquina. O, mejor dicho, lo tuvo que pisar. Volvió y pidió el toallón para secarse la cabeza antes de subir.

- Cantidad -dijo.

- ¿Y dónde están?

- Los dejé.

A lo lejos venía una camioneta, se la señalé a Fernanda por el espejo retrovisor.

- Seis -dijo ella.

- Siete -dije yo.

- No sirven para comer, son pura pluma.

No alcanzamos a ver el número de la patente porque iba muy rápido.

- No sirven para nada -insistió papá. Metió la punta del toallón en su camisa abierta para secarse las axilas y el pecho.

Abrió la puerta del Dodge. Se sentó. Se cruzó el cinturón de seguridad y enganchó la hebilla en el soporte.

- No te creo -dijo Fernanda.

Él acomodó el espejo para mirarla. Pasó un coche azul.

- Yo tampoco te creo -dije, solidarizándome con mi hermana-. No acertaste ninguno de los tiros.

Mamá hizo un movimiento con los brazos sobre la espalda para volver a abrocharse el corpiño. Después pasó el cinturón por sobre su cuerpo y el del bebé. Papá sonrió raro, con un brillo maligno.

- No parecés un buen ejemplo -continuó hablando mi hermana, cuando él dejó de mirarla. Lo dijo bajito, como en un susurro. Pero yo la escuché.

Él encendió el auto y enfiló otra vez hacia la ruta, para continuar viaje. Machi se puso nuevamente a llorar y yo le dije “pará, hay que ser dura”. Cerré los ojos y me imaginé con la escopeta en las manos, apuntándole a papá a la cabeza.

Pongo en celo el cerrojo. Apoyo mi dedo en el gatillo.

Mamá dispara antes:

- ¿Querés tomar algo, Cacho?

Le señala la heladerita.

- Agua, sí -contesta él -. ¿Está fresca?

- Claro.

Él abre la botella que mi madre le alcanza e inclina la cabeza hasta vaciarla.

- Qué rica -dice, cuando termina de beber. 

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9.13.2023

APARICIÓN

 Apareció cuando la llama se puso verdosa. Apareció para que su hijo y su nieto lo vieran aparecer.

El hombre acomodó una silla. Venía de la heladera, trayendo agua.

—¿Es un reloj, no? —le indicó, para que viera. El chico hizo que sí con la cabeza. Era clara la mano de fuego flotando desde la cima de la vela. Cuando se alargó un poco reprodujo una muñeca —la forma torneada de una muñeca—y otra vez un reloj de pulsera, un puño incipiente de camisa. Las llamas se agrandaron hasta llegar a esbozar un codo imaginario en el aire de la habitación. El antebrazo de fuego ondulaba liviano y poderoso en la oscuridad. Después se volvió a achicar y quedó solamente el dedo índice. Por más que estuviera hecho de llamas, el chico pudo distinguir el nudillo. Hasta que se borró.

El chico encendió otro fósforo.

—¿Qué vas a hacer? —dijo el padre.

—Dejame probar.

El fósforo encendido se posó en el pabilo. La vela volvió a prenderse, primero con la forma de una uña de luz, luego con la del dedo índice desplegado y el resto de los dedos cerrados en el puño. La mano ajada, la muñeca otra vez con el reloj conocido por el padre del chico y un brazo encamisado, por fin, por detrás del codo y hasta el hombro del aparecido.

—Es el reloj del abuelo Oscar.

La pronunciación del nombre bastó para que las llamas se enojaran; el brazo dio un latigazo. Después se hamacó hacia la derecha y a la izquierda, titilando como una cinta encendida. Cuando el padre intentó soplarlo, lo avivó. El aire hizo crecer el hombro completo, el cuello de una camisa, el lado izquierdo de una cara. La media cara arrugada del abuelo Oscar. Un ojo y el perfil de su nariz aguileña. La inconfundible oreja del abuelo, como un durazno seco.

El chico fue a juntarse con el padre, al otro lado de la mesa. Los restos de la cena se veían, desperdigados sobre el mantel y a la luz mortecina, como un tibio accidente. El costado en llamas tal vez leyó ese pensamiento porque se arqueó, manifestando un dolor imprevisto y agudo. Sus límites se expandían o achicaban; la media boca se estiró hacia arriba. El abuelo estaba gritando y nadie podía escucharlo. El chico sintió bajar del techo la bocanada de calor.

—¿Te da miedo? —preguntó el padre.

—¿A vos?

—Sí.

Habían estado jugando al salto de la llama con las velas del corte eléctrico. El apagón se había producido al final de la comida, y el padre había buscado tres velas. Ubicó dos sobre un estante y dejó la tercera arriba de la mesa. El chico acercaba el fósforo encendido al pabilo, pero sin tocarlo, a una distancia de dos o tres centímetros. La llama utilizaba el humo como puente para cruzar. Era gracioso verla saltar en el aire y encestar como una pelota de básquet. El padre lo dejó hacer, fingiendo desde el asombro de sus ojos que era algo que veía por primera vez.

—No tiene botones en el puño —señaló el chico.

La tela se había desenrollado del brazo. Colgaba como un trapo. De un ojal había quedado suspendido un objeto que parecía un aro.

—Conozco esos gemelos —dijo el padre—. Se los quité cuando murió.

El chico sintió un escalofrío. El padre insistió en soplar, casi por nervios. La cara del abuelo se volvió a dibujar en el aire entumecido de la habitación. Hizo un movimiento como para acercarse, pero finalmente bostezó. El bostezo tironeó del amarillo de sus mejillas, y le hizo brotar una llama de la boca, como a un dragón. La lengua de fuego había rozado la pared.

Era la cara misma del dolor. El chico frunció los gestos de su propia cara y el abuelo se volvió a desvanecer hasta el hombro.

—Prometo no volver a soplar —dijo el padre.

Las caras de ellos parecían, también, dos extrañas apariciones.

—¿Qué vamos a hacer? —preguntó el chico.

—Esperar. Ya se va a consumir.

—Apagala, papá.

—No puedo.

—Es que ahora me dio miedo. Mucho.

Hablaban en susurros.

—Andate, Oscar —ordenó el padre, sin énfasis—. No tenés nada que hacer acá.

El abuelo amenguó la intensidad de su resplandor. En el aire había olor a azufre.

—Es malo, papá. Siempre lo fue. Echalo.

El padre no se podía mover de la silla.

—No se va a ir.

—Obligalo.

—No sé cómo.

Sopló y el fuego volvió a tomar fuerza creciente. Se llenó de rojos y azules, ganando altura sobre el cuerpo de las personas. Con la frente casi tocaba el cielorraso. El padre cruzó los dedos. Parecía que iba a llorar. El hijo lo miró con frustración.

—Tiene que haber una manera de que se vaya…

—Ya —dijo el padre, pero no hizo nada.

Entonces el hijo se mojó el índice y el pulgar con saliva, los acercó al pabilo encendido y los frotó. El fuego hizo fizz y la figura del abuelo desapareció para siempre.

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8.22.2023

FRANCO Y SUSTO / ÚLTIMA VERSIÓN

 

Conozco al Susto de hace treinta años, mirá si voy a necesitar que un pendejo me venga a decir quién es. Tomamos cerveza siempre en la misma esquina. Si conseguimos, también fumamos. A veces consigue él, a veces yo. Si tenemos papel de seda, armamos legal. Si no, armamos igual, con las páginas finitas del Nuevo Testamento que nos regalaron los Testigos de Jehová de la otra cuadra. Alto porro santo.

Al Susto me lo encontré cuando era pendejo. Yo tenía quince y paraba en una plaza. Los pendejos tienen que andar con pendejos. Estábamos fumando tabaco. Él andaba solo y le digo “che, chabón, ¿vamos a escabiar a aquel árbol?”. Hizo que sí con la cabeza. Desde ese día, treinta años tomando cerveza con el Susto. Y nada de nada con el Susto. Amigos, nomás. Hasta que vino este pendejo y nos cagó la vida.

Yo no sé cosas del Susto. O no sabía, hasta que el pendejo llegó. Era mejor no saber. Nunca me importó lo que pudiera hacer. A veces le hablaba algo de mi vida, poco y nada. Con la mano levantada me regalaba el gesto de “Franquito, todo bien” y yo me quedaba contento. Siempre fue así. Es mi hermano. Lo único que hago es compartir. Por ahí faltan puchos y yo compro, los tiro en la vereda y le digo “Susto, se te cayeron los puchos”. El chabón se ríe, pero no dice más que algún otro monosílabo. No necesita hablar. Yo lo miro, él me mira. “¿Está fresca la birra?”. “Uh”, dice. “¿Se te apagó el fasito?”. “Wé”. “¿Viste el partido de Boca el otro día?”. “¿Eh?”. “¿Querés que consigamos un sánguche?”. “Ah”. Salvo por la w, habla con vocales. Y con la hache, que es muda como él. En treinta años no le había escuchado decir una palabra de más de una sílaba hasta ayer a la tarde.

 

A ver: antes tuvimos un tercero. Varias veces. Siempre hay un atrevido. Hubo un renguito que era una maza. El Susto no le daba ni cinco de pelota; yo le hablaba. Había jugado en las inferiores de Morón antes del accidente. Hubo otro pibe que mezclaba la Quimes con Mirinda. Se nos pegó tres días. Yo le decía “borracho no toma azúcar”, y el pibe se reía. Le faltaban todos los dientes. Vino también uno que dijo ser el hermano del Susto y contó que le pusieron el apodo a los cuatro años, porque veía fantasmas. Al menos a su abuela y a un delegado al que lo había pisado el Mitre. El Susto no dijo ni sí, ni no. No movió la cabeza. Apoyó la botella recién abierta sobre sus labios y no paró hasta que le vio el fondo.

Cuando apareció con el pendejo no me importó. No tenía cabida. El pendejo hablaba mucho, se daba corte. Abrió la temporada tomando una Jeineken: nadie que tome Jeineken en una esquina puede durar. “¿De qué te la das, boludito?”. Él se rio. Y empezó a venir todas las veces. Y a meterse.

- Es un personaje, tu amigo. Con vos no habla, pero conmigo sí –me dijo.

- Qué te va a hablar.

- Le pregunté cómo se llama. Le cuesta activar, pero suelta.

- No quiero saber, pendejo.

- Le pregunté si tenía familia.

- Callate.

 

El Susto vive en el presente. Le digo: “¿Viste qué pasó ayer?”. “Ah”. O: “Che, Susto, ¿viste lo que pasó hace una semana?”. “Ah”. “¿Y lo que va a pasar el mes que viene?”. “Uh”. El pendejo también empezó a venir solo. Y traía los fasos especiales que el Susto traía antes, a veces, armados con papel ecológico. Ese marrón, marca OCB. El Susto lo consigue en el Sarmiento.

- ¿Te los roba o se los regalás?

- ¿Eh?

- Los fasos.

Nunca me había regalado uno de esos. Los compartía, sí, de a pitadas, pero los llevaba siempre él. El pendejo lo encendió con un Cricket. Entendí que se los regalaba. Cuando el Susto se fue, le pregunté, pero no me contestó. En su lugar, dijo:

- ¿Ustedes son trolos?

- Rescatate, pendejo.

- ¿Te coge?

- Achicá porque te mato, pelotudo.

 

Por esta esquina pasan taxis y nos tocan bocina. Yo los saludo. Los taxis son los tiburones de las calles. Me molesta solamente cuando se paran, porque detrás de ellos siempre viene un patrullero. No sé por qué, pero es fija. Vienen a joder cuando ven que las botellas vacías pasan de cuatro. Nosotros estamos acá sentados, no le hacemos mal a nadie. Pero el taxista dice “está mal mostrar las botellas. No puede ser que nuestros hijos vean todo lo que chuparon”.

- ¿Y por qué no puede ser?

- Porque es un mal ejemplo. En Estados Unidos no te dejan chupar en la calle si no le ponés una bolsa de papel madera que tape la etiqueta.

- Los yanquis me la chupan.

El Susto se rio y el pendejo hizo fondo blanco. Llevó las cinco botellas vacías y las ordenó en fila india en el cordón. Yo ya sabía que era para problemas. La sirena sonó desde la otra esquina. “Pendejo, sos un tarado”. El patrullero se paró al lado de las botellas y las barrió cuando abrió la puerta. Iba un solo cana. Siempre van de a dos, de lo cagones que son.

- No vengás a joder que no tenemos documentos. Ya lo sabés –le dije.

- Entonces los tengo que llevar.

- Andate a la puta que te parió.

Me pateó las piernas, como si yo fuera un perro sarnoso.

- De pie -mandó.

El pendejo se paró. El único. El Susto solamente cerró los ojos. Yo me puse en cuclillas y no hice más nada. “Estamos en el horno”, pensé. El cana fue hasta el patrullero a llamar por la radio. El pendejo se le acercó. El cana puso una mano sobre la cartuchera y abrió el botoncito. “Acá nos vuela”, pensé. El pendejo puso su mano derecha sobre el hombro uniformado del tipo. Lo miraba a los ojos cuando le habló.

- Franco está cansado, por eso dice cualquier cosa. Lo va a tener que disculpar. ¿Cómo podemos arreglarlo?

El cana nos miró un rato, como si no entendiera.  Se metió de vuelta en el patrullero. Hizo sonar la sirena. Salió.

- ¿Cómo hiciste?

El pendejo levantó las cinco botellas y las escondió en el cantero. Después volvió a sentarse al lado nuestro, con la espalda pegada a la ochava.

- Arreglé –dijo.

- Pero no vi que le dieras nada.

- Nada –repitió.

El Susto abrió los ojos otra vez.

 

El pendejo se las da de traductor. ¡Lo acaba de conocer y ya cree que lo tiene de toda una vida! “Quiere decirte esto y lo otro”. Como si yo no lo pudiera entender. “La birra está congelada; hay que darle tiempo a Ruggeri; pasame las vacías que dobló la lancha; ¿no quedaron flores del domingo?; mandate de una, chabón, nos vemos”.  Es un caradura, el pendejo. “Cuando hace así te está diciendo esto, con este gesto te dice esto otro”. Ya no lo aguanto más. Vienen juntos y cuando el Susto se va, el pendejo se queda conmigo. Como si fuera mi amigo.

- El otro día me lo garché.

- ¿A quién?

- Al Susto, a quién va a ser.

Largué el vidrio.

- ¿Tás diciendo que el Susto es puto? Te voy a cagar a trompadas...

- Cómo caíste, ¿eh? No es puto. Tiene familia en Padua.

Me quedé más frío que la Jeineken.

- Una esposa y dos hijos -agregó.

Forcé la risa.

- ¿Y cómo los mantiene?

El pendejo largó una bocanada con forma de aro.

- Trabaja con una bruja en Moreno. El chabón ve fantasmas. Le pagan una torta de plata para que los señale.

Agarré la tuca con las uñas. Aspiré hasta que los pulmones se me llenaron de humo.

- La bruja dirige la quinta –siguió-. Lleva gente de guita. Él les indica si tienen el fantasma pegado. Los ve, los cuenta. La bruja les cobra a los pitucos. Entonces el Susto pasa cerca del tipo, le quita el fantasma y se lo pega a otro. Así es como laburan en Moreno. A todos los que garpan los liberan igual.

- ¿Me estás jodiendo? Lo conozco: no tiene familia en Padua ni en ninguna otra parte.

- Tiene. Posta.

 

La verdad es que me arruinó la esquina. Treinta años sin hablar y lo bien que nos iba. Acá tomando, fumando. Ahora los veo venir juntos y ya me agarra la bronca. Para colmo se separan cuando llegan; el Susto se me sienta a la izquierda y el pendejo a la derecha. “¿Ya no corren más Quilmes?”. El pendejo dice “al capo le dan acidez”. “¿En treinta años no te dieron acidez y ahora te dan?”. El Susto sacó un Mylanta del bolsillo. Pasó la lancha con dos yutas y el pendejo la saludó. No habíamos tomado ni tres botellas cuando el Susto se levantó, se limpió el vaquero y se fue.

- Sé más cosas –tiró el pendejo.

Me quedé callado. No tenía ganas de nada. Ni de escucharlo, ni de detenerlo.

- Los hijos son un pibito y una pibita. La esposa es la bruja. Los hijos la ayudan en los rituales, porque ya son adolescentes. Sirven jugo, cortan las tartas, dan números, reciben a los pitucos.

Sacó una foto del bolsillo. Había un rancho sin vecinos, solo en una cuadra del Conurbano.

- Acá viven. La quinta no, la quinta es grande, con árboles. La alquilan para las sesiones. Trabajan los fines de semana, tienen hasta seguridad. Perros. Los pitucos estacionan los coches y cuentan lo que les pasa, el disgusto que tienen. Los fantasmas les deterioran la salud. No son todos jodidos, a veces sirven. Pero la gente igual no los quiere porque traen mala suerte. Y el Susto va y los señala. Y si nadie más los ve les dice cómo son, qué están haciendo. Las sonrisas que ponen.

- ¿Y él se los mata?

- Ahora vengo –se levantó-. No se pueden matar porque están muertos de antes.

El pendejo fue a mear al baldío y a comprar otra birra al almacén. Al volver la destapó haciendo palanca con el encendedor. Tomó un trago antes de sentarse.

- Ese es todo el problema –dijo-. Los fantasmas se pasan. Cuando el tipo paga el Susto le quita el fantasma y se lo pega a otra persona. A los pitucos les chupa un huevo a quién se lo contagian. Se alivian enseguida cuando sucede. El Susto los ve clarito. – Hizo un silencio corto-. Uno se te pegó a vos, me dijo.

- ¿A mí?

Afirmó con la cabeza. Tosió.

- ¿El Susto te dijo?

- Sí.

Casi se me cayó la botella del temblor.

- ¿Cómo me va a hacer algo así?

- Sin querer. No elige a los que se los pasa. Simplemente los ve, los saca y después espera. El que te pegó le vino prendido al pulóver, desde Moreno.

- Me estás comiendo la cabeza.

- Es verdad. Preguntale, si no.

Le tiré una patada, así nomás de sentado.

- Rajá de acá. No te quiero ver más.

- Mañana no vengo porque tengo que hacer una changa por el centro. Aprovechá y preguntale.

 

Pero vino igual. “A este pibito lo tengo que matar”, pensé. Nunca, nunca, nunca le había preguntado nada a mi amigo. “Hola Susto, chau Susto”. Nunca habíamos tomado stout, que es de putos. ¿A quién se le ocurre ponerle azúcar a la cerveza? Y el pendejo se apareció con dos stouts. Me decepcioné cuando lo vi tomar al Susto. Le dije: “¿qué hacés, vieja?”. Sabía lo que le había dolido aquel pibe que la mezclaba con Mirinda. Y le vi también sacar un vasito plegable, de esos de plástico que venden en La Salada, y desplegarlo para que el pendejo le sirviera más stout. “Se acabó la esquina”, pensé. Me levanté y me alisé el vaquero.

- ¿Adónde vas? –dijo el pendejo.

- No sé.

Los dejé y me fui por ahí. Vi minitas, saludé a un taxista que me tocó bocina. Le garronié un 43/70 a un viejo. Le escamotié una torta de grasa a una gorda que para a la salida del túnel del tren. Entonces me dio sed y compré una Quilmes. Como no llevaba envase, el almacenero me la pasó a una botella descartable que tenía por ahí, y que había sido de agua. El primer trago lo di adentro, pero después enfilé hacia la esquina. “Ojalá se haya ido”, pensé. Y también pensé que era hora de hablar con el Susto. Si al pendejo le había contado, a mí también. Si no, era una guachada. Milagro: el Susto estaba solo, a punto de pararse.

- ¿Adónde vas?

- ¿Ah?

Le dije que estaba bastante molesto por ese pendejo que había traído. Era un atrevido. No entendía que a él le hablara y a mí no. No entendía que él le manejara los armados de papel marrón. Le pasé la cerveza y le dio un trago largo, del pico, como tiene que ser. “Qué stout ni qué carajo”, dije. Aparté las botellas para sentarme.

- ¿Me vas a contar o no me vas a contar? No contestó.

- Estoy re paranoico, Susto. En cualquier momento vuelvo al paco. Este pendejo de mierda que trajiste me está boludiando mal. Tenemos que hablar ya mismo. Aprovechar que no está.

Hizo que sí con la cabeza. Y después dijo:

- Bueno.

La palabra me sorprendió. Fue como el tañido de una campana anunciando a misa.

- ¿Por qué no me hablaste en treinta años?

- Porque no.

Las palabras le salían claritas. El pendejo tenía razón.

- ¿Y ahora por qué me hablás?

- Porque sí.

Tomé otro trago. “La Quilmes es la mejor cerveza del mundo”, pensé. Dije: “ahhhh”, satisfecho. Él sacó el Mylanta del blíster y se puso a masticarlo. Me cabrié.

- Chabón: ya no sé si quiero seguir siendo tu amigo, así…

- ¿Así cómo?

- Ese pendejo vino ayer y antes de ayer a batir cosas. Nuevas, de vos. Acerca tuyo. Por ejemplo: ¿es cierto que tenés una familia en San Antonio de Padua?

Tardó en contestar.

- Sí –dijo.

- ¿Con dos pibes?

Afirmó con la cabeza, sin hablar, como si el tema le diera vergüenza. Sacó un paquete de Marlboro, lo taqueó y agarró un cigarro entre los labios. Volvió a guardar el paquete sin convidarme.

- Es cierto –dijo, al fin.

- ¿Y cuándo la tuviste, si yo te vi todo el tiempo? Si estuviste treinta años conmigo.

- Me ves solamente cuando escabiamos.

Encendió su cigarrillo con el Cricket que le había visto antes al pendejo.

- ¿Y qué hay de cierto de eso que le andás quitando muertos a la gente? Hizo que sí con la cabeza.

- ¿Es verdad? –insistí.

- Es un laburo como cualquier otro –dijo.

- ¿Muertos que se ven?

- Yo, al menos, los veo –dio una larga pitada.

- ¿Y te pagan por eso?

- No me puedo quejar.

- ¿Y es cierto que yo tengo pegado uno?

Que no me hubiera convidado un cigarro era la peor de las señales. Hice un revólver con los dedos de la mano derecha y le apunté al pecho. “Pum”, dije. Traté de sonreír para bajar la gravedad de la pregunta. Apoyé la botella en el piso, algo que jamás había pasado antes con líquido adentro. Una botella abierta, en la esquina, va de mano en mano. Es ley.

- Sí –dijo.

Le dio una segunda pitada a su Marlboro. La mano me empezó a temblar. Por las dudas toqué el Testamento de las hojas arrancadas, que siempre llevaba en el bolsillo de atrás del vaquero.

- ¿Y quién es?

El Susto puso cara de pedir perdón.

- El pendejo –dijo.

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Gustavo Nielsen nació en Buenos Aires, en 1962. Es arquitecto y escritor. Como arquitecto ha realizado obras en Capital, Buenos Aires, Córdoba, San Luis y Montevideo. Desde 2008 comparte el Galpón Estudio en el barrio de Chacarita junto a los arquitectos Ramiro Gallardo y Max Zolkwer. Ha ganado el Tercer Premio para el Parque Lineal del Sur (asociado a Max Zolkwer), el Primer Premio para el Oasis Urbano Magaldi Unamuno, Tercer Premio Cenotafio Las Heras y Mención en el Oasis Boedo (asociado a Max Zolkwer y Ramiro Gallardo), Mención en el MPAC (asociado a Sebastián Marsiglia), Mención en el Pabellón Frankfurt 2010 (asociado a Max Zolkwer y a Sebastián Marsiglia) y Primer Premio en el concurso internacional para el Monumento a las Víctimas del Holocausto Judío (también asociado a Sebastián Marsiglia). Escribe notas sobre ciudad y diseño en el suplemento Radar, de Página 12. Ha publicado “Playa quemada” (cuentos, Alfaguara), “ La flor azteca” (novela, Planeta), “El amor enfermo” (novela, Alfaguara), “Marvin”, (cuentos, Alfaguara, "Auschwitz" (novela, Alfaguara)y “Adiós, Bob” (cuentos, Klizkowsky Publisher) , “Playa quemada” (cuentos, Interzona), “La fe ciega” (cuentos, Páginas de Espuma, Madrid), “El corazón de Doli” (novela, El Ateneo) y “La otra playa” (novela, Premio Clarín Alfaguara 2010).

gesnil@gmail.com

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