IL FIORE AZTECO
I migliori rapporti sessuali che ho avuto con la mia mano destra li devo a “il fiore azteco”. Ma non al fiore di cui mi parlava la nonna, quello del Parco Giapponese (una testa parlante poggiata su un vassoio); proprio a quello, invece, che appare disegnato nel libro di magia: sorridente, occhi neri e braccia incrociate, il corpo sezionato a metà e poggiato su un tavolino. L’illusione è quella di mezza donna viva, dalla cintola in su. Si vedono le quattro gambe del tavolino (questa è la parte più difficile, io riesco a farne vedere solo tre, la complicata disposizione degli specchi per me è ancora ostica), e il taglio del corpo, o per meglio dire, la sezione, come posata su un vassoio da cameriere. La mezza donna indossa un piccolo top e un leggero scialle che lascia appena indovinare la forma del seno: piccolo, va detto. Tiene le braccia conserte proprio al disotto di quelle tettine. La pelle ha il colore giallo dei fogli del libro, lo stesso della pelle del tavolo. Sembrano pergamene.
Amo quell’adolescente di pagina 226; l’ho amata da sempre. E lei, tranquilla, muta, incisa nel foglio. Senza gambe, senza fianchi. Trenta linee curve e due macchie al posto degli occhi.
PRIMA PARTE
UNDICI ANNI
Sono un ragazzo e ho le mani piccole. Forse troppo.
E sembra che gli strumenti di magia siano stati progettati in scala spropositata, per mani adulte. I globi mi scivolano via, le carte mi cadono proprio quando voglio che rimangano ben appiccicate, le palline da ping pong girano senza moltiplicarsi tra le mie dita ancora sottili e finiscono per rimbalzare sul pavimento.
E poi, quando esco di scena, ho il cuore che mi batte forte. Come se avessi un febbrone da cavallo.
Lo sguardo della gente è come quello dei riflettori, solo che gli spettatori sono sempre in agguato, cercano sempre di capire dov'è il trucco. E’ per questo che la magia mi piace da impazzire. Invidio, e una volta vorrei provarla, quella sensazione di impotenza del pubblico, quel non riuscire a capire come si fa; mi piacerebbe stare dall’altra parte e percepire che il trucco c’è ma che proprio non si riesce a vedere. “Niente da questa parte, niente da quest’altra”; e si sa che non è vero, si intuisce, ma come si fa a non credere ai propri occhi?
Lo spettacolino è organizzato nel garage di casa, per la gente del quartiere. Ho undici anni e vivo con la nonna. Stringo la bacchetta con forza. La nonna siede in mezzo a tutti i presenti sulla sua sedia a dondolo e tiene, appoggiato sulla gonna, un cavo elettrico con l’interruttore. I bambini sono seduti per terra, di fronte a me. In fondo ci sono alcuni vicini di casa, della mia età, che si divertono a prendersi a spintoni. Ultima, in un angolo, Maria Marta, che ha compiuto quindici anni la settimana scorsa e mi ha invitato a ballare alla sua festa. La bacchetta è un pezzo di manico di scopa dipinto di nero e foderato alle estremità con carta stagnola. Faccio penzolare dalla mia mano sinistra la silhouette di un pesce, ritagliato da una pagina del giornale La Nación, una di quelle degli annunci economici. Sostengo il pesce per la coda. Dico, impostando la voce (una voce speciale per Maria Marta, che si appoggia con tanta grazia contro la parete del mio garage; per le sue spalle, per le sue braccia, per i suoi fianchi):
- Signore e signori, vorrei oggi raccontare alle illustrissime eccellenze vostre la storia di un pescatore…
La nonna attenua la luce.
- …che estrasse dalle acque un pesce di questa dimensione. ”Capitò mai a vossignoria”, mi chiese il pescatore, e a voi lo chiedo io immantinente, “di vedere un pesce cosí grande?”.
La silhouette rappresenta un pesce di media grandezza, quanto lo può permettere la pagina doppia del quotidiano tagliata in diagonale. Veramente in qualche pescheria avevo visto pesci anche più grandi, o quanto meno della stessa dimensione, ma il bello era modulare la voce perché quello che tenevo in mano sembrasse il pesce più grande del mondo. I bambini dicono: “Sííííí”, gridando come ossessi. Scalpitano e si muovono nella semipenombra come animalini ciechi sotto una coperta.
- “Per me, non è poi cosí grande”, dissi al pescatore, e questi allora si pentí della sua menzogna. “Signore, mi rispose, ha proprio ragione. Se devo essere sincero, credo che in fondo non sia poi così grande”.
Piego il pesce a metà, poso la bacchetta su un leggio e afferro un paio di forbici. Mi dispongo ad accorciarlo tagliandone un pezzetto, e Maria Marta se ne esce lí, dal fondo, con una domanda che mi colpisce come una stilettata:
- Perché questo bimbo parla così difficile?
È in piedi; la voce giunge chiara. La nonna e alcuni ragazzi girano la testa. Lascio cadere il pezzo di carta a terra, torno a riprendere il pesce soltanto per la coda e lo sciolgo. La silhouette si dispiega conservando la sua forma originaria.
- Ancora stupito -dico, imbaldanzito dal buon esito del trucco-, avvertii il mio pescatore di poc’anzi con queste parole: “Gagliardo cavaliere, è che ancora non mi sembra tanto grande”.
- Che stupidaggine…
Lei cerca di nuovo di interrompere, senza averne il diritto. Il libro di magia è importato dalla Spagna, per questo ha un linguaggio cosí aulico. Devo sopportare questa mancanza di rispetto dopo aver imparato a memoria tutti i dialoghi, ogni battuta, ogni posizione che i tomi della Jackson suggerivano? Ore e ore di studio, che caspita!
La guardo male, con gli occhi a fessura. Ma che vuole, che sta cercando quella maleducata? E proprio lei, la figlia del falegname... Già troppo se li avevo invitati, lei e suo fratello, che ha quasi la mia età ma ancora non sa neanche ballare. Maria Marta alza le spalle, come se ora la cosa non le importasse più di tanto. Io piego di nuovo il pesce a metà, taglio un altro pezzo e lo dispiego. E ancora una volta appare intero, ma più piccolo. Avevo passato tutto il pomeriggio spalmando la superficie posteriore della carta con un tubetto di colla, perché si vedesse sempre intero. Durante le prove mi era riuscito bene quasi tutte le volte.
- “Come lo vedete ora, vossignoria?”, osó domandarmi il pescatore. “Male, truffatore. Non sarò certo vittima dei vostri sotterfugi. Il pesce era più piccolo”.
Lo piego per fare l’ultimo taglio e Maria Marta grida: “BUUUU”. Perfino i bambini piccoli girano la testa. La nonna aumenta un po’ la luce.
- Che succede? -le dico.
- Parla da cristiano, salame -grida.
Il coro dei bambini ripete: “salame, salame”. Guardo la nonna e indovino che persino lei lo sta pensando, che sono un salame, perché spalanca la bocca come per darsi un contegno, ma in realtà per reprimere una grassa risata. Le dico che, per favore, abbassi di nuovo la luce. Stringo i pezzi di carta, la testa e la coda del pesce una sopra l’altra ben pigiate, in modo che s’incollino su un pacchettino piegato che, da prima dell’inizio della rappresentazione, è nascosto dietro la testa del pesce. Questo pacchettino è carta raccolta a fisarmonica che simula le vertebre e le spine del pesce. Il bello del trucco sta proprio nell’accorciare sempre più il corpo fino a che non rimane più nulla, e alla fine far dire al pescatore, fermo nella sua ostinazione: “Io l’ho mangiato, e senza dubbio alcuno so che era di codesta dimensione, benché non lo crediate”.
E a questo punto, dispiegare lo scheletro, come una ghirlanda, fino a terra. Le spine attaccate alla coda e alla testa avrebbero fatto un’impressione straordinaria, soprattutto fra i bambini. E il discorso, con quei dialoghi pomposi, era anche pensato per la nonna, che era spagnola e avrebbe apprezzato di più quel linguaggio, non quello che usavamo noi nella strada. Anche se certo suonava strano nella bocca di un piccolo bonaerense di periferia. Perché era il vero linguaggio, quello, il linguaggio dei libri e in particolare quello de L’Apprendista Mago, tomo I della Biblioteca di Giochi e Illusionismo di Barcellona; una lingua sonora e rotonda, adatta ad essere pronunciata di fronte a un pubblico. Beh, questo era lo spettacolo, anche se a Maria Marta sembrava una grande stupidaggine degna di un “salame”.
Dispiego il pesce tenendo gli occhi fissi sull’angolo opposto ai suoi occhi. Vorrei scappare via da tutti questi occhi che mi inchiodano ridicolizzandomi, sottoponendomi a questa umiliazione, a questa piccola enorme umiliazione dello scheletro che non vuole incollarsi alla coda, che si incastra a metà della piega e si rompe, che mi lascia con la pinna in mano e una minima parte di lisca centrale pendente, indifesa. La testa cade giù con il resto del pacchetto.
Applaudono lo stesso. Come se alla fine non gli interessava altro che passare un po’ di tempo, cosí, con qualunque cosa. La nonna ride, tenendosi la pancia. Con quel dondolio della sedia a dondolo sembra un’indovina con la sua palla di vetro.
- Andate via -grido a tutti, arrabbiatissimo. Tutti tacciono.
Grido di nuovo. La rabbia mi trapassa, attraverso gli occhi, e si espande nel mio cervello, prendendone possesso. Sono violento come soltanto un mago di undici anni può esserlo.
Due vicini aiutano la nonna ad alzarsi; neanche lei riesce a farla finita con quelle risate. Uno ad uno sgombrano il garage. Alla fine rimaniamo Maria Marta, suo fratello ed io. Lei si avvicina fino a che la distanza che ci separa non è che appena di due mattonelle.
- Vattene -le dico, coprendomi la faccia con le mani.
- Non c’è niente da piangere -. La sua voce è una leggera carezza.
Perché si era fissata tanto su come pronunciavo le parole, sul linguaggio delle cose che dicevo? La cosa fondamentale era quello che si stava facendo, la magia stessa. Trasformare un pesce in uno scheletro di pesce “per condividere momenti gradevoli insieme agli spettatori”.
- Vattene -ripeto, ma lei si avvicina di una mattonella. Mi mette una mano in mezzo alle gambe, poggiandola sul pantalone di tela che uso per andare a scuola. Carlitos rimane indietro; si è messo in testa il cilindro di cartoncino nero e fa lo spadaccino con il manico di scopa.
- Che fai? -le dico.
Sento il tepore che nasce da quel movimento primario, da quella specie di impasto in lievitazione che lei è riuscita ad ottenere. Me lo sento crescere dentro la sua mano e mi stringo al suo corpo per bloccarlo, per non perdere questo calore che prima o poi sparirà, come tutte le cose. È bello. È leggero. Appoggio il mio viso sui rigonfiamenti della sua maglietta e ripenso alla musica della festa del suo compleanno. Un valzer. L’altra sua mano sulla mia spalla; il suo profumo; i suoi capelli. Un suo attimo di incertezza, poi un suo passo indietro che fa ricomparire sul pavimento e tra noi una mattonella, due. La sua voce che mi parla con dolcezza, come per chiedermi scusa per aver smesso di ballare.
- Hai visto che anch’io conosco qualche trucco? -dice.
Sorride come una ragazza grande.
- Quello che ti manca è una partner - aggiunge-, come quelle dei maghi della tivvù. Il fiore azteco, che mio padre nomina sempre.
Suo fratello usa la bacchetta magica per sbatterla contro il leggio che io stesso avevo costruito con il legno delle cassette di marmellata, seguendo per filo e per segno le istruzioni della rivista Lúpin. Allungo la mano e gli tolgo di testa il cilindro.
-Donne no -dico a Maria Marta.
Lei alza le spalle, tira via Carlitos per il braccio ed escono senza far rumore. Rimango solo, i trucchi sono tutti per terra, le sedie in disordine. Le mutande bagnate.
TREDICI ANNI
Maria Marta aveva ormai sedici anni e mi sembrava una tonta, ma proprio tonta, anche se dovevo riconoscere che la sua tontaggine era cresciuta in maniera proporzionale alla dimensione delle tette che si ritrovava. Aveva il più bel paio di tette del quartiere. Veniva al garage con la minigonna e la maglietta ben aderente, perché sapeva bene quello che piaceva a me e ai miei compagni di scuola. Direi che condividevamo un’amicizia speciale, basata sulla seduzione permanente della prestidigitazione. Per esempio: a lei piaceva ricevere in regalo un fiore che nasceva dall’aria, o da dietro la sua testa, come per incanto. Io capivo che le piacevano quelle cose perché voleva in tutti i modi crederci. Non c’è trucco, magari pensava col suo piccolo cervello d’oca. E poi, dopo lo sforzo di un pensiero, tornava al niente, alla linea bianca dell’encefalogramma piatto.
Cominciai a diventare amico di Carlitos a metà della seconda media. Io ero un po’ preoccupato perché non riuscivo proprio a ficcarmi nella zucca tutti i nomi dei padri della patria, né le date di Storia né le capitali in Geografia. “Primo Governo Nazionale: Rappresentanti!”. E bisognava snocciolarli uno dopo l’altro.
Una mattina facevamo colazione nella cucina della nonna, e Carlos mi disse che poteva inventarsi un verso con un trucco per ricordare tutti i nomi dei padri della patria. Una cosa facile, e anche divertente. Prese un tovagliolino di carta e scrisse:
“BELGRANO CAGÓ DIARREA, MÁS CAGÓ ALBERTI”.
Spiegò:
- BELGRANO è Belgrano. CA-gó è Castelli, DIARREA è Larrea, MÁS è per una parte MAtheu e per l’altro AS è AZcuénaga. Infine ALBERTI è Alberti. Tutto qui.
Mentre inzuppavo il pane nella tazza del caffellatte, pensavo che certo sarebbe stato più difficile ricordarsi tutta questa tiritera che non i sei nomi a memoria. Comunque da quella volta in poi cominciammo a far versi con tutte le cose. Era come preparare un trucco.
Más cagó Alberti.
Durante le vacanze di quell’anno ebbi il mio primo contatto serio con il fiore azteco. Fu in un libro senza copertina e con la controcopertina azzurra, della Editorial Tor, che spiegava grandi passaggi dei più importanti artisti dell’illusionismo. Lo avevo comprato per quattro soldi in un locale di libri usati vicino alla stazione. Il fiore azteco era uno degli ultimi trucchi. L’idea del gioco era quella di esibire mezza signorina sorridente, tagliata all’altezza dell’ombelico, su un tavolino. Una doppia superficie riflettente dissimulava la presenza delle gambe sotto il tavolino. La donna si muoveva, parlava. Il libro utilizzava più di dieci pagine per descrivere le varianti nella disposizione degli specchi ma nemmeno mezza riga dedicata al copione, a quel che si doveva dire durante lo spettacolo, e io non riuscivo proprio a immaginarmelo. Neanche L’ultima parola della magia e dell’occultismo, della Editorial Caymi, spiegava bene i dettagli:
“Quando fu inventato questo gioco, molto tempo fa, fu chiamato con il nome di Fátima. In Messico prese il nome di ‘fiore azteco’. È una variante del ‘Decapitato’ e la sua rappresentazione è identica, essendo una illusione comunque più gradevole di quella della testa sola, che risulta sempre lugubre. Se la donna indovina che ne assume il ruolo è bella, l’esperimento avrà un esito straordinario…”
Rilessi il “Decapitato”, cercando un commento, un’indicazione, qualche dettaglio in più. Le altre varianti come “Madame Crisantema” o “Amaltea, la Sibilla di Cuma” non aggiungevano granché.
Carlitos prese il libro, guardó la figura 344 e disse che era proprio impressionante. Per lui, il solo fatto che il pubblico la vedesse viva già bastava.
- Qui dice che è indovina -aggiunse.
Non mi convinceva.
- E che indovinerá?
- Non so. Forse i nomi della gente. O starà lí, bendata, come una telepata, e andrá dicendo quali oggetti stanno sollevando le persone che si prestano a collaborare.
Mi restituí il libro. Io rimasi a guardare la figura in silenzio.
- E che c’entra la mancanza di gambe con la divinazione? -dissi-. Essere senza gambe le darà chiaroveggenza?
Carlitos ci pensó su.
- Magari c’entra qualcosa il Messico.
Maria Marta, per venire alla rappresentazione, si era truccata gli occhi e si era data il rossetto sulle labbra. C’erano anche il vicino della casa d’angolo, quella faccia da pappagallo che abita a metà strada col suo fidanzato pieno di brufoli, i fratellini Martínez, la cilena del negozio di alimentari, le ragazze Rapazzo (la più grande con un bebé in braccio), la tipa che abita di fronte, anche lei ragazza madre ma in preda all’amarezza e ai sensi di colpa perché aveva regalato il bambino, la vecchia Lavandina e la nonna. Il barbone della strada si affacciava dalla soglia per guardare. Quello che ci separava dal suo corpo era soltanto una questione di odori; per questo non lo facevamo entrare.
La nonna ordinó che chiudessero la finestra. Spense le luci col suo interruttore e chiese silenzio. Per l’esattezza gridó: “TUTTI ZITTI!”. Accese il riflettore rosso e io, che stavo seduto su uno sgabello guardando il pavimento con fare pensieroso, cominciai ad aprirmi come se fossi “un bocciolo di rosa che si sveglia alla prima rugiada del mattino”. Cosí diceva il libro. Indossavo un vestito tipo indú, con un turbante fatto con un asciugamano bianco. Nella parte anteriore vi avevo agganciato il disco di alluminio che sigilla i barattoli del Nesquik. Dovetti, per fare una cosa fatta bene, pareggiarne i bordi con le forbici. E cosí, sotto la luce rossa, il riflesso argenteo assumeva tonalità intriganti e nascondeva i bollicini che mi si erano formati sulla fronte e nelle guance. Anche la tunica indú dissimulava qualcosa. “Presto crescerai tutto in una volta”, diceva la nonna. Ma intanto continuavo ad essere bassino e rotondetto. Non grasso ripugnante, ma certo con brutti rotoli all’altezza della vita e dei fianchi. Comunque qualcuno più basso di me c’era. Carlitos era uno di questi. Anche se non era proprio grasso né aveva ancora i bollicini. Maria Marta invece era una dea che sorrideva a tutta bocca, con la luce rossa che l’avvolgeva come un tulle. Io con la tunica sembravo più magro e addirittura un po’ più alto. Più degno delle sue tette.
Sul leggio c’erano le buste con dentro le targhette. Cinque buste e cinque targhette. Il leggio era nuovo di zecca, un regalo della vecchia Lavandina (la vicina amica della nonna): un tavolinetto cinese laccato di rosso e nero, con draghi che sputavano fuoco. Si potrebbe dire che tutto era stato rinnovato, perché con Carlos avevamo aggiustato le sedie di legno nella falegnameria di suo padre e io stesso, con un rullo, avevo dipinto il soffitto e le pareti del garage con smalto sintetico nero. “Il colore è per dare risalto allo spettacolo”, dissi alla nonna per convincerla. Lei disse:
- Il nero sa di lutto.
Ma mi lasció fare lo stesso. Mi sembró che alla gente la scenografia fosse piaciuta. La vecchia Lavandina aveva la faccia di chi viene a dare un’occhiata più al suo tavolinetto cinese che a me.
- Salve a tutti. Bene -la voce mi usciva pausata e chiara-, voglio che si rilassino. Osservino con attenzione il mio terzo occhio nel turbante, è un pezzaccio di latta che ha fatto il giro del pianeta ipnotizzando umani, animali, piante, sassi… Era di un fachiro d’oriente, della città di…
La più piccola delle Rapazzo fece un verso con la bocca, come se comprimesse uno sbotto di risa. Era lei che mi aveva regalato il foglio d’alluminio.
- …della città di Nesquik, vero signorina?
Assentí con la testa. Alcuni si girarono per vedere meglio. Immaginai che Maria Marta forse cominciava ad innervosirsi per questa complicità: le era sparito dalla bocca il sorriso di prima.
- Bene. Chiedo a tutti silenzio e che concentrino l’attenzione sulla latta. Non vi succederà niente di male. Stringete bene i piedi; le spalle diritte…
Faccia di pappagallo e Maria Marta si irrigidirono sulle sedie, dure. Il fidanzato del pappagallo guardava teso, stringendo i denti. L’attenzione di tutti era rivolta verso il turbante. Mi alzai in piedi e gli sguardi si alzarono. Quando si mantengono gli occhi rivolti verso l’alto per un certo tempo, i muscoli si stancano, perché devono produrre un lavoro forzato. Questo lo avevo letto da qualche parte. Approfittai per suggerire:
- Tranquilli, sereni… le palpebre vogliono chiudersi, gli occhi si stanno stancando, viene il sonno ma noi non lo faremo arrivare, vero Carlos?
Carlos negó con la testa. Maria Marta guardava di sottecchi il ragazzo dell’angolo. Mi disturbó che non fosse concentrata.
- La respirazione diventa più profonda, di più e di più… -la nonna chiuse gli occhi- ci sentiamo comodi, rilassati… è molto piacevole riposare qui seduta… vero Maria Marta?
- Eh?
- Dico se stai bene, comoda ma attenta, rilassata ma sveglia.
- Sí, certo -disse.
Il ragazzo dell’angolo era alto, magro, aveva diciassette anni e guidava la Fiat 600 di suo padre. “Troppi punti a suo favore”, pensai.
La nonna russó. La ragazza madre della casa di fronte la scosse un poco per svegliarla. Qualcuno stava già ridendo. La nonna spalancó gli occhi.
- Mi sono addormentata… non so come è successo -disse gridando. A seguito dello scossone aveva pigiato il pulsante, accendendo senza volere la luce bianca. Tutte le palpebre si mossero, simultaneamente sorprese. Presi le cinque buste dal tavolinetto.
- Anche se ci siamo svegliati, voglio mettere in chiaro che siete ipnotizzati. L’esercizio di rilassamento che vi ho fatto fare serviva perché le vostre menti si coordinassero alla stessa frequenza delle mie onde cerebrali. E anche se ognuno continuerà a fare quel che vuole, i cinque eletti che io indicherò saranno capaci di realizzare un’impresa di mentalismo mai vista in Argentina. Per favore, continuate tutti con la mente libera, completamente sgombra…
Mentre dicevo questo, guardavo Maria Marta pensando “non ti risulterà troppo difficile”. Diedi una busta alla nonna e un’altra a lei, che disse grazie; ne passai un’altra al ragazzo dell’angolo, ma gliela tolsi di mano prima ancora che potesse afferrarla. “Mi sembra che non sei ancora pronto”, gli dissi. Mortificato per sempre davanti alla dea di noi tutti. Le altre tre buste se le litigarono le sorelle Rapazzo e un bambino vestito da marinaretto.
- Tutti sapete scrivere, vero?
- Scrivere qualunque cosa? -domandò il bambino.
- Sí.
Il bambino lasciò la busta, spaventato, nelle mani della vecchia Lavandina. Ripetei la domanda:
- Sapete tutti scrivere?
- Síííí -risposero.
- Allora consegnerò ad ognuno di voi cinque una penna perché possiate annotare una parola nel cartoncino che troverete dentro la busta.
- Una parola… qualunque? -chiese Maria Marta.
- Sí, signorina -risposi.
- Ma proprio qualunque qualunque? Anche il nome di qualcuno?
- Non c’è problema -dissi.
Prese la biro con decisione e cominciò a scrivere nella parte della busta come se stesse annotando il mittente. Fece in tempo a scrivere una lettera che io già la bloccavo e ripetevo a tutti:
- Attenzione, scrivete la parola nella targhetta, non fuori.
- Ah -fece lei, confusa. Tirò fuori il ritaglio di cartoncino e scrisse la sua parola. Maria Marta era davvero tonta, e fu l’unica che si confuse, senza che io avessi potuto accorgermene sul momento e prevenire l’errore. E questo perché, oltre a dovermi concentrare sulle spiegazioni, mi stava facendo innervosire quel tarato della 600, che si dondolava sulla sedia con l’aria di dire “mi sono già rotto, da un momento all’altro me ne vado”. Spiegai ai cinque che infilassero i cartoncini dentro le buste e le chiudessero. “Senza incollarle”, dovetti aggiungere, davanti a una lingua già pronta a umettare la colla di un angolo. La nonna mi consegnò la busta personalmente. Maria Marta raccolse quelle delle due ragazze di dietro, aggiunse la sua e si alzò per venire a darmele. Io commisi l’errore di non stare attento a quello che faceva, già concentrato nel seguito del discorso.
- La mente dell’uomo è un luogo meraviglioso, pieno di segreti e vibrazioni occulte. Oggi mi vedrete con un’attitudine per così dire autoritaria, sí, mai vista prima in questo garage, ma che sicuramente vi stupirà fino a strapparvi il giusto applauso, perché vi leggerò nel pensiero. Direte voi: “Questo è impossibile”, e io affermo: “niente è impossibile”. Soprattutto se prendiamo le giuste precauzioni. Per questo motivo questo pomeriggio abbiamo cominciato con un esercizio di suggestione che, senza che ve ne siate accorti, mi ha collocato in una posizione privilegiata rispetto ai libri aperti che per me ormai sono le vostre teste: la posizione del lettore.
Sentivo gli occhi di tutti inchiodati sulle mie mani, intanto che mescolavo le buste. Perfino gli occhi della nonna, che conosceva il trucco ed era mia complice attraverso una parola chiave concordata. La parola era “acqua”. Mischiavo le carte in maniera apparentemente limpida, ma la busta della nonna rimaneva sempre l’ultima.
- Sí, rispettabile pubblico, leggerò le vostre menti. Non tutto il contenuto delle medesime, perché sarebbe una sfrontatezza ed un approfittarsi delle mie doti di indovino; leggerò soltanto la parola che avete scritto, con il solo appoggiare la busta sulla fredda superficie del mio terzo occhio di alluminio.
Presi a caso la prima busta e l’accostai al circolo del turbante, poco più in su della fronte. Maria Marta teneva le gambe accavallate. Chiusi gli occhi. Non volava una mosca.
- Che buffo modo di scrivere -dissi-, ma conosciuto… mi sembra. Mi sembra che sia una parola della nonna. È così? -e aprii gli occhi rivolgendomi a lei.
- Non so -disse, contenta.
- Vediamo, vediamo… ACQUA.
La nonna si mostrò sorpresa.
- Hai indovinato -disse.
La gente la stava guardando quando lei cominciò a ripetere “ha indovinato, era acqua, proprio così”. Mi disposi a verificarlo, aprii la busta e lessi la prima parola sconosciuta, scritta con grafia -chissà- di una delle Rapazzo. La targhetta diceva: “casa”. La infilai di nuovo dentro, chiusi la busta e la feci scivolare dentro il cilindro.
- E ora vediamo… disse un cieco… (risate) -le cose erano cominciate bene. La nonna mi fece l’occhiolino. Alzai la seconda busta dal mucchio.
- Questa è più facile, si può vedere bene, la parola è scritta in stampatello, la quql cosa mi fa pensare alla signora Rapazzo, è così? -Feci la domanda guardandola negli occhi. Lei disse:
- No.
- No?
- La mia è scritta in corsivo.
- Non vada troppo di fretta! -le gridai esasperato.
- Potrebbe essere la mia? -disse la più piccola delle sorelle.
- Potrebbe essere, potrebbe essere… -ripetei concentrato nella visione.
Tutti tacevano. Maria Marta mi fissava muta. Potevo sentire come quasi mi toccasse con gli occhi la tunica indù, come mi accarezzava anche dentro la tunica.
- CASA! -gridai entusiasmato. La ragazza battè le mani. Aprii la busta e lessi: “giente”, cosí, con una i di troppo. “Effettivamente, CASA”, mentii. Di nuovo misi la targhetta dentro la busta e la tirai dentro il cilindro, preparandomi a sollevare la terza busta. La ragazza ripeteva: “era casa, era casa…”, senza capire. Nessuno mai, prima di allora, le aveva letto il pensiero; ora io sapevo tutto di lei, tutti i suoi sogni, tutta la sua vita, tutto ciò che avrebbe fatto. Quanto avevo dimostrato era la prova del mio potere.
- Ahi ahi, qui c’è un errore…-dissi. La vecchia Lavandina si coprí la faccia con le mani, con un sorriso sdentato e con un gesto di richiesta di comprensione, come a dire “sicuramente l’ho fatto io”. Dissi “GENTE” suscitando l’ammirazione del pubblico; aprii e lessi SOLE.
Avvicinai l’ultima busta alla fronte, lo appoggiai al disco Nesquik ovvero al mio terzo occhio e indovinai la parola SOLE. Ma girando la busta tra le mani, i primi della fila notarono qualcosa di strano. Qualcuno indicò il retro della busta, proprio dove Maria Marta aveva cominciato a scrivere per errore. E quella di Maria Marta era una parola che mi fece tremare di rabbia, perché fra tutte le parole del mondo lei aveva scelto il nome Ernesto, scritto con la minuscola, “ernesto”, il ragazzo dell’angolo. Ma la cosa peggiore fu che, prima di lasciarmi infilare la busta nel cilindro, lei si alzò e disse: “Lí non ci può essere scritto SOLE, perché io ho scritto un’altra cosa”.
- Come…? -le chiesi, sapendola incapace di riconoscere una minima differenza tra una busta e l’altra sotto quella luce rossa, quando tutte erano identiche.
- Sí -rispose, più che a me a tutto il pubblico, per rovinarmi il trucco-, quella è la mia busta perché io mi sono sbagliata e l’ho cominciata a scrivere fuori, con la biro che mi hai dato… ma la parola non è quella.
Girai la busta. Era segnata: una “E” di ERNESTO, correttamente maiuscola, scritta per errore sull’esterno.
Maria Marta rideva: “Ci ha ingannato, ci ha ingannato”, con una cantilena burlona; il ragazzo dell’angolo si rilassò sulla sedia in uno stato di completa estasi post-ipnotica, totalmente padrone della situazione; la nonna scoppiò in una tonante risata e la minore delle Rapazzo, poverina, si sentiva defraudata e in piena crisi. E proprio un secondo prima della fine! Mi mancava soltanto di sollevare la busta della nonna, dire ERNESTO, anche se la bocca mi si sarebbe seccata, aprirla e trovarci scritto ACQUA, la parola della nonna, riporre in busta e mischiare tutto dentro il cilindro di cartone, cosí alla fine chiunque avrebbe potuto verificare le parole. Perché le parole esistevano, erano scritte, si potevano vedere e tutti -salvo la nonna- sapevano che erano segrete. E tutti pensavano che anche la parola della nonna era segreta e che io l’avevo indovinata. Io, il migliore, quello che avrebbe conosciuto ogni dettaglio della loro vita; che fregatura! “Andate via”, pensai, ma non ci fu bisogno di dirlo perché la gente se ne stava già andando. La gente, già dimentica dello spettacolino, usciva e chiacchierava dei pettegolezzi di strada; Carlos invece mi si avvicinó per confidarmi che comunque era andata bene lo stesso, che era un bel trucco e che alla fine era stata solo pura fatalità, un piccolo errore senza importanza. Mentre sua sorella, splendida, si affrettava per raggiungere quello dell’angolo, quello della Fiat, Carlos, Carlitos, mi ripeteva la solita tiritera, che dovevo cercare di puntare a qualcosa di più importante, di maggior impatto, qualcosa tipo spettacolo di magia con tutti gli annessi e connessi. E intanto che Maria Marta ed “ernesto” si scambiavano un bacio sulla bocca (nel mio garage! Ero rosso di rabbia…), Carlitos continuava la solfa domandandomi se non avevo mai pensato al trucco di sezionare una persona. Gli dissi di no. Che non mi interessava. Che volevo morire, volare, sparire; non so. Lui sí che sapeva, e si offriva di farlo insieme a me, se ero d’accordo. Le labbra di Maria Marta si stringevano contro quelle del suo ernesto con minuscola, ricciolino come me ma con minuscola. Potevamo progettarlo una di queste mattine, insisteva Carlitos.
- E come si fa? -chiesi, distratto.
Allora Carlitos fece qualcosa di incredibile, qualcosa che non avevo mai visto fare da nessuno prima di allora, qualcosa di inimmaginabile. Disse:
- Cosí.
E si rimpicciolí senza piegare le ginocchia né chinarsi, approfittando di un momento in cui nessuno ci guardava. Come se le gambe gli si fossero ristrette a fisarmonica sotto i pantaloni. Non riuscivo a immaginare che tipo di relazione ci fosse con i trucchi della persona tagliata in due, ma era veramente fantastico.
- Questo è il segreto -disse.
Carlitos era il segreto. Il mio amico, che frequentava il primo superiore della Pilota (una scuola mista, e non di preti e tutti maschi come il collegio Marista che frequentavo io), era capace di contrarre le ossa del bacino in una maniera incredibile. Diceva che anche Houdini faceva lo stesso, solo che il grande mago era capace di contrarre anche le spalle e i gomiti. Certamente non era una cosa da rompersi le ossa, ma una rara capacità di agire sulle proprie giunture. Lui lo aveva visto fare anche in un film con Toni Curtis. Era stranissimo. Le gambe gli si restringevano telescopicamente sul punto vita e le ossa gli si infilavano fino in pancia; si abbassava come minimo di venti centimetri fino ad apparire come un orribile nano, con le gambe quasi inesistenti dalla metà in su. Quasi senza cosce. E quando voleva, tornava a rialzarsi.
- Vuoi che mi levi i pantaloni per farti vedere?
Gli dissi di sí, tanto tutta la gente se n’era andata. Si sfibbió la cintola e tiró giù la cerniera lampo dei suoi jeans, un paio di Wranglers di quelli larghi e all’ultima moda, che scivolarono subito a terra. Anch’io avevo lo stesso tipo di jeans e gli stessi stivaletti scamosciati color marrone. Rimase con gli slip, piccoli e rossi, che gli evidenziavano un bozzo enorme in mezzo alle gambe.
- Caspita, che pacchettone per essere cosí basso!
- Visto? -disse- è incredibile quanto mi sia cresciuto. E mi sono venuti anche un sacco di peli.
- Fai un po’ vedere…
Abbassò gli slip fino alle ginocchia, senza nessuna vergogna. E lí non c’era trucco. Era qualcosa di simile a una salsiccia, con la cappella tutta rossa; e i coglioni sembravano due criceti addormentati. Avevo visto il criceto di sua sorella nella falegnameria; si chiamava Coco o Cocó, perché nessuno sapeva se era maschio o femmina, e mi sembrava che avesse la stessa peluria delle sue palle. Precisa identica.
- Il pisello mi è cresciuto da solo -spiegò, quasi scusandosi-. E a te?
Stavo per dirgli “non so che mi succede, dev’essere che ancora non ho avuto la botta di altezza di cui parla la nonna”, ma non lo feci. E prima che lui continuasse a chiedere, dissi:
- Quando mi si drizza è enorme.
Lui non insistette, e tutto continuò normalmente. Si alzò gli slip. “Preparati”, disse. Io ero ancora assorto pensando a quella cosa gigante. “Quando ce l’avrò anch’io cosí, non ti dico quello che ti farei, Maria Marta!”, pensai. Carlos fece tremare i suoi fianchi e potei vedere come due protuberanze (mi spiegò che erano le parti superiori dei femori) passavano da sotto l’elastico degli slip e salivano fino all’altezza dell’ombelico. Se non erano venti, quindici centimetri sí che si abbassava, e per la sua statura era un calo notevole. “Se aveva quel pisello prima dello sbalzo d’altezza”, pensai, “come gli sarebbe diventato dopo… se lo sarebbe dovuto legare al collo…”.
- Vedi? -disse, e cominciò ad alzarsi e abbassarsi come in un esercizio di ginnastica-. È strano, no? Però riesco a farlo.
Era un ragazzo pieghevole. Un ragazzo fisarmonica.
- Questo lo sanno la mamma e il dottore. E ora tu.
Fece un tremor di fianchi e le ossa si ricollocarono al loro posto. “Oltre a rimpicciolirmi in questo modo”, spiegò, “posso piegare le ginocchia come tutti e abbassarmi ancora di più”. Sorrise e si tirò su i Wranglers. Io ero veramente stupefatto.
- E ti sei fatto già le seghe con quel cannone? -gli domandai.
Alzò le spalle con sufficienza.
- Puff! Mille volte -disse.
Poi mi raccontò il trucco della persona sezionata. Il titolo del trucco era “La ragazza tagliata”, che in questo caso sarebbe diventato “il ragazzo tagliato”, perché era Carlos che sarebbe entrato dentro la cassa. Subito pensai a il fiore azteco come a una parte dello spettacolo che poteva venire esibita prima: sezionare una donna in due per poi esporre al pubblico la metà superiore. Carlos osservó che forse erano due cose diverse, con emozioni diverse, e che secondo lui non bisognava metterle insieme. E in più, il fiore azteco doveva essere per forza una donna.
- Possiamo farlo fare a tua sorella -gli dissi.
Allora cominciò a parlare di Maria Marta, e mi disse che a volte si faceva le seghe pensando a lei. Mi sembró terribile, ma per lui era una cosa normale. Lei si faceva la doccia di sera, e dato che nel loro bagno non c’era la tendina, la spiava dal buco della serratura.
- Ha delle tette così, belle sode. Due palloni. Non te lo puoi immaginare.
Mi si drizzò inmediatamente. Io le tette le avevo viste solo al cinema, nel film Sole rosso, quello di caw boy che vide tutta la seconda media nel Nuevo Ciudadela, con Charles Bronson e una cinese che si bagnava in un catino smaltato. Fu soltanto un secondo, ma un secondo che per tutti noi del gruppo valeva l’intero film.
- L’ho visto anch’io quel film, ma neanche a parlarne, non c’è paragone. E poi, io a mia sorella le ho visto i capezzoli, la fica e il culo.
Mi strinsi il pisello, che era veramente duro, con la mano infilata nella tasca dei jeans. “Muoio dalla voglia di vederla”, dissi, e Carlos tacque, come se ora si vergognasse di aver parlato troppo di cose di famiglia. Quando si accorse che mi stavo toccando, diventò rosso e muto del tutto. Gli domandai:
- Scopa?
Lui alzò le spalle; non aveva più voglia di parlare. Rimanemmo per un bel pezzo in silenzio. Alla fine disse:
- Stiamo parlando di qualunque puttanata invece di parlare del trucco...
- Hai ragione. Dimmi.
Tirò fuori dalla tasca il progettino di una cassa che misurava 1,18 metri per 0,80. Le dimensioni erano indicate con le frecce. La cassa si apriva in due come una bara, e aveva un buco in cima per far uscire la testa e altri due in fondo per i piedi.
- Io mi infilo nella cassa. Mi metto gli stivaletti vaqueros di mia sorella, che mi stanno due numeri più grandi, e intanto mi sono spalmato i piedi di vasellina. Ci sei?
- Sí -risposi.
- Tu chiudi il coperchio. Prendi la sega di tua nonna. La vecchia intanto può fare qualche rumore tipo gong con una pentola, o qualcosa del genere. Mi segui?
- Sí.
- Bene. A questo punto cominci a segare. Mi dai un po’ di tempo, un po’ di secondi mentre dici qualcosa al pubblico; io ritraggo le gambe e piego le ginocchia. Sessanta centimetri di spazio interno mi bastano, ho già provato. Così piegato arrivo più o meno alla metà della cassa. Facciamo un segno con la matita in modo che non ti sbagli. Sarà il punto da dove inizi a segare in orizzontale.
- E i piedi?
- Li tiro su. Rimangono solo gli stivaletti alla vista del pubblico, la parte bassa, perché un po’ più in alto sono coperti dal bordo inferiore della cassa. La vasellina serve appunto per far scivolare fuori i piedi dagli stivaletti senza che si muovano. Mentre stai segando io grido. Tu separi le metà. La gente è stravolta. Metti insieme di nuovo le due parti della cassa e io infilo i piedi negli stivaletti. Solleviamo il coperchio e io esco intero.
Sembrava interessante. Ed era lui che si prendeva tutti i rischi.
- E la vasellina da dove la prendiamo?
- Mia sorella ne ha un barattolo. Non so perché la usa. Gliela rubo dalla borsetta e neanche se ne accorge.
- E la cassa?
- La faccio di compensato, su montatura di pino due per uno, così è più facile da segare.
Poteva proprio funzionare. “Ma guarda un po’, l’apprendista mago, con queste idee…”, pensai. BELGRANO CAGÓ DIARREA.
- Tua sorella avere tettone e tu avere capoccione -gli dissi.
- Ah ah -disse lui, mentre si accarezzava il bozzo sul jeans che, chissà per quale fatto strano, gli era cresciuto.
Carlos praticamente viveva con il cazzo sempre dritto. Tutto il santo giorno, tutti i giorni, a scuola, quando era sull’autobus, al cinema, quando pisciava, sempre. Questo per lui era un problema, perché doveva masturbarsi in continuazione per farselo ammosciare, ed era condannato ad usare sempre blue jeans, che perlomeno gli contenevano un po’ la protuberanza. A scuola, per esempio, usava Wranglers grigi tipo falegname, con quella fascetta laterale accanto alla tasca destra, che usava per appenderci le chiavi. Mi accorsi del suo problema quando cominciò a venire a casa, per le innumerevoli volte che chiedeva di andare in bagno. Veniva dopo pranzo, per parlare dello spettacolo, ed era preoccupatissimo per i dettagli dei dialoghi. O anche se la nonna se la sarebbe cavata con il controllo delle luci. Io gli dissi di sí, che l’aveva già vista all’opera. A Carlos piacevano le pareti nere, ma preferiva qualcosa di più discreto del costume da indú. Gli spiegai che era per dare un tocco di esotismo, che poteva andar bene e che cosí consigliava Magic Kim nel capitolo “L’apparizione del mago”, pagina 66. Lui obiettò, disse che nel libro “La Prestidigitazione alla portata di tutti”, Aldo Musarra insisteva con la sobrietà e che col costume da indú io sembravo una donna incinta. Mi fece proprio arrabbiare e cominciai a gridare.
- Non sai accettare le critiche -disse.
- Quello che non accetto è che stiamo parlando di cazzate, e di dove andremo con la macchina senza avere ancora la macchina.
- Che vuoi dire?
- Che manca ancora la cassa di legno! Quella che hai promesso e che non hai mai portato.
Mi sembrava che il punto era quello, perché hai voglia a parlare di dettagli, se mancava la cassa mancava tutto. Era il centro del problema. Si coprì la bocca per dirmi:
- Il fatto è che mia madre non vuole.
La madre di Carlos soffriva di asma e non ne poteva più della segatura che doveva per forza respirare a causa del lavoro del marito. Non tollerava che ora anche il figlio si mettesse a far polvere. Mia nonna, che la conosceva bene, diceva sempre: “pover’uomo suo marito, gran lavoratore e cornuto”. La nonna inventava corna a mezzo quartiere, e quando venne a sapere del nostro inghippo dopo averle raccontato del trucco, disse:
- Non c’è problema, fatelo qui nel garage il lavoro della cassa. Poi ripulite tutto.
Carlos portò gli attrezzi della falegnameria. Un trapano elettrico, una sega, anche questa elettrica, dotata di uno strano apparato che lui disse che era il compasso (per tagliare i cerchi per i piedi e la testa), un martello, chiodi, alcuni listelli di sezione rettangolare, due grandi lamine di compensato, delle cesoie per tagliarle, una spazzola d’acciaio e una pialla elettrica dalla quale penzolava la prolunga del cavo.
- Dove lo attacchiamo? -domandò.
- Lí.
La nonna rimase per un po’ a guardare, ma volava tanta di quella polvere che se ne andò tossendo. Fu necessario aprire la finestra accanto alla porta del garage. Tutti quelli che passavano domandavano cosa stavamo facendo. Perfino il tarato di ernesto fermò la Fiat, scese e disse:
- State facendo un bel po’ di casino, eh, ragazzi?
Non lo guardammo neanche.
- Beh, buon lavoro -disse prima di andarsene, e noi: “vaffanculo”.
La madre di Carlos aveva ragione a lamentarsi. Lui diceva di no, difendeva il padre (che aveva promesso di venire a dare un’occhiata al lavoro, di vedere come stava andando, ma che non venne mai). La madre era un’isterica ed era insopportabile per tutti e due. Spendeva una fortuna in medicine che poi buttava nel cesso senza averle mai usate.
- Sai quanto costa quel Ventolin che non le abbiamo mai visto avvicinare alla bocca?
- No -dissi, perché non lo sapevo.
Lui ci pensò un poco. Stava piallando la montatura della cassa: i pali di pino diventavano sempre più lucidi e lisci. Spense la piallatrice prima di affermare:
- Non lo so quanto, ma un sacco di soldi.
Poi cominciò a piantare i chiodi. Teneva i chiodi in bocca e quando parlava la voce gli usciva velata da un vago suono metallico. Disse qualcosa di questo genere: “che si crede, che mio padre tira fuori i soldi a palate? E come se non bastasse, ora anche mia sorella si mette a fare l’asmatica”.
Chi invece ci onorò della sua presenza fu il barbone. Si affacciò alla finestra estasiato, osservando Carlos mentre martellava i chiodi. Io non facevo niente, salvo preparare il mate e parlare. Quando chiudemmo la finestra il barbone applaudí, come se fosse finito lo spettacolo.
- Presto applaudirai davvero -disse Carlos, nel momento in cui l’ultimo chiodo gli cadeva dalla bocca.
Quella sera stessa portò via gli strumenti. Aveva lasciato l’armatura già pronta; mancavano le cerniere e i coperchi di legno. Lo accompagnai a casa aiutandolo a caricare gli strumenti che pesavano. Appena arrivati lui gridò: “ciao, ciao”, ma nessuno rispose. Entrammo. Anche Maria Marta era arrivata, perché la sua borsa e il giaccone erano appoggiati sul tavolo. Carlos fece “shhhh”, con un dito al centro delle labbra perché non facessi rumore, e avanzammo per il corridoio in punta di piedi. Sentii l’acqua della doccia che scivolava sul suo corpo. Mi si drizzò in una frazione di secondo. Lui fece un gesto per indicarmi che mi avvicinassi alla porta del bagno, ripetè l’indicazione di tacere e si inclinò sulla serratura. In quel pertugio c’era tutto ciò che più desideravo al mondo. C’erano quelle tette. Dall’interno della tasca afferrai il mio coso straduro e strinsi, chiudendo gli occhi. Dovetti appoggiarmi alle pareti del corridoio. Me la stavo immaginando riflessa nello specchio, dalla vita in su, come un fiore azteco. Maria Marta a metà. L’acqua della doccia. I capezzoli.
Carlos aveva tirato fuori l’uccello con la mano destra e faceva su e giù mentre guardava. Alzava e abbassava la mano. In quel momento non glielo vidi tanto grande. Come se il mio, in erezione, aumentasse di volume più del suo e cosí fossero più o meno uguali. Comunque, al confronto, continuava a vincermi per lo meno di una testa. Carlos era ebreo, e a differenza del mio ce l’aveva tutto scappellato. Lo afferrai per una spalla perché mi lasciasse vedere e lui fece un movimento come per dirmi di aspettare che fosse arrivato. Ma in quel momento udimmo la porta d’ingresso e la madre che gridava: “ciao, ciao”, che sembrava essere proprio un’abitudine della casa. Carlos con un balzo si dileguò nella sua stanza, chiudendosi e lasciandomi in mezzo al corridoio, piantato come un carciofo e in piena erezione. Con quel pisellone che mi pulsava e che mi stava facendo scoppiare i pantaloni, mi trovai davanti sua madre che insisteva a ripetere: “ciao, ciao, come va, dove sono tutti?”. “Qui”, gridò Maria Marta, spengendo la doccia. “Qui”, gridò lui dalla sua stanza.
- Qui -dissi io, tutto rosso, mentre mi sgonfiavo e gocciolavo, non soltanto di sudore freddo.
- E che stavi facendo? -domandò lei.
- Aspettavo suo figlio -risposi.
Carlos aprì la porta.
- Non so se lo conosci, è Fabio, quello della casetta con le tegole, il vicino di Ernesto -disse.
- Piacere -disse lei, un po’ fredda, o perlomeno cosí mi sembrò. Soltanto uscendo in strada mi tornò il colorito normale.
- Ma sei matto a lasciarmi cosí? -gli dissi fuori di me.
- Cosí come? -domandò.
- Cosí, lí piantato.
- Non ti preoccupare -aggiunse con aria di sufficienza-: ho una foto di lei tutta nuda e domani te la porto.
Arrivó il giorno seguente e si mise al lavoro. Aveva preso dalla falegnameria del padre tre cerniere, un cacciavite, qualche vite, uno scalpello e di nuovo la sega elettrica col compasso. Tagliò perfettamente le tavole di compensato, marcandole a terra col punteruolo, varie volte, e utilizzando un’altra tavola perché il lavoro fosse fatto a squadra; io lo aiutai per piegare il compensato secondo i punti che aveva marcato. Era facile: il legno faceva crak e si spezzava di netto secondo le misure. E anche se il taglio non era proprio preciso, lui disse che lo avrebbe lisciato con una spazzola metallica. Tiró fuori la spazzola dalla tasca della tuta azzurra che indossava. Era una tuta identica a quella di suo padre, solo che lui la portava con degli stivaletti scamosciati e direttamente su una maglietta Pengüin con cravatta. Chiuse la cassa colpendo a martellate chiodi senza testa che mi sembrarono piuttosto fragili, e con lo scalpello fece delle tracce in tre punti precisi per avvitarvi le cerniere. Lo vidi tagliare, scartavetrare, segare e avvitare. Della foto, niente. Rimasi ad aspettare tutto il tempo. Anche lui aveva il pisello ritto, si notava addirittura attraverso la tuta. Quando sembró che avesse terminato, mi chiese un bicchier d’acqua. Andai in cucina a prenderlo. C’era la nonna che, con gomitolo e ferri, stava lavorando a un paio di pantofoline per la ragazza madre, perché la gente mormorava: “di nuovo”, ma che adesso non lo avrebbe lasciato per tutto l’oro del mondo. Aveva scoperto che il motivo della sua depressione era proprio quello, e che una madre deve sempre aver cura dei propri figli. “Troppo tardi ti sei pentita”, borbottava la nonna, sistemandosi gli occhiali per controllare il suo lavoro a maglia.
Tornai al garage e gli diedi il bicchiere. Se lo scolò in un sorso. La cassa era terminata, con i fori e tutto.
- Chiudi porta e finestra -disse.
Mi stupì che mi desse degli ordini. Insomma, eravamo nel mio garage, e poi il mago ero io. Comunque andai e chiusi. La cassa era venuta davvero bene e io ero veramente contento.
- Proviamo il trucco? -domandai.
- Prima c’è una sorpresa -disse, e aggiunse:- Solleva il coperchio.
Lo feci. Il coperchio si apriva perfettamente ancorato nelle cerniere; all’interno c’era una foto. Nella foto c’era sua sorella nuda, ginocchioni sul letto e col culo ritto in primo piano, mentre il viso era rivolto verso chi guardava, inclinato su una spalla. Le si vedeva anche una supertetta, bella come un monumento. Carlos aveva fissato la foto dentro la cassa con una puntina.
“Allucinante”, pensai. Tirammo fuori i nostri uccelloni belli duri e, senza perdere neanche un dettaglio di tutta quella carne in esposizione, ci masturbammo piano piano, ridendo da buoni soci che eravamo.
Poi cominciammo a parlare dei nostri piselli. Lui mi mostrò nei particolari com’era il pisello di un ebreo. Anche se suo padre era cristiano e dunque, lui, mezzo cattolico e mezzo moishe, il suo Rubén Peucelle gli era venuto completamente jiddish. Mi fece ridere. Per lui, Rubén era il miglior lottatore di catch, meglio ancora del Cavaliere Rosso o dello stesso Karadagián.
- Gli ho messo questo nome perché il mio è un lottatore -affermò. - E il tuo?
- Che cosa?
- Come si chiama?
- Non so -dissi.
Carlos era convinto che anche il mio doveva avere un nome, perché in fin dei conti il proprio pisello è il migliore amico che uno ha. “Nome e cognome”, aggiunse. Mentre io ne pensavo uno adatto, mi raccontò che sua madre lo voleva iscrivere dai Maristi, perché era una scuola di maggior prestigio e tutta maschile, ma per fortuna era ebreo e cosí lo hanno mandato alla Pilota. Gli dissi che era stata davvero una fortuna, che i maristi erano dei veri militari, e che tra l’altro bisognava raccontare al prete che uno si masturbava e giurare di pentirsi durante la confessione. Proprio cose dell’altro mondo, perché tutti sapevamo che nessuno si pentiva, che era solo per fare la comunione e poi, appena uno entrava in grazia di Dio, di nuovo con le mani in pasta, per cosí dire.
- Pretacci di merda -aggiunsi.
Tra l’altro, la Pilota era molto meglio, perché c’erano le femmine, con le gonne, le calze a tre quarti e i grembiuli quadrettati. Mi spiegó che comunque non c’era da farsi illusioni, perché quelle del primo e del secondo anno andavano con quelli di quinto. Io ascoltavo e pensavo. E improvvisamente mi balenó il nome, ricordandomi dell’ultima spiegazione di Storia.
- Filippo -lo interruppi nel mezzo del discorso-. Andrà bene?
- E il cognome?
Tornai a pensare.
- Filippo “Il Bello”. Quello di Spagna.
Carlos mosse la testa.
- Perlomeno fino a che non venga Giovanna la Pazza -disse.
Alla fine della giornata staccammo la foto e lui se la mise in tasca. Provammo tutti i movimenti del trucco, segnando la linea che si doveva segare (la facemmo un po’ più vicino agli stivaletti, per essere sicuri che non ci sarebbero stati incidenti), però senza farlo, sennò poi dovevamo rifare tutto il lavoro della cassa. Era un trucco con molti sprechi, perché alla fine di ogni rappresentazione la cassa era già da buttar via, e bisognava rifarne un’altra per la prossima. Mi sembrò una cosa da matti, troppo lavoro. A lui invece non gli importava; ci eravamo comunque divertiti costruendola. Avremmo lasciato tutta la gente del quartiere a bocca aperta. Raccogliemmo tutti gli strumenti, spazzammo il pavimento, passammo uno straccio umido per dare un’aria di pulito e lasciammo la cassa su quattro cavalletti, pronta per lo spettacolo.
Carlos aveva inventato un sistema tutto suo per masturbarsi, lo chiamava “l’ombrellino”. Steso sul letto, si afferrava il tronco con la mano sinistra e con la palma della mano destra un po’ a cappuccio si strofinava la punta mentre pensava a sua sorella. Lo chiamava ombrellino per la forma che assumeva il tutto. Una sera mi domandò se conoscevo altri modi che avrei potuto insegnargli e io ne inventai uno lí per lí, con il pane appena portato dal forno.
- Dev’essere un pane di tipo francese, ancora bello caldo, di quelli che spezzi ed esce fumo. Gli tiri fuori un po’ di mollica, non molta, ed è pronto. Te lo scopi.
Gli sembrò una cosa schifosa, perché aveva a che fare col cibo, specialmente il pane, che a casa sua era sacro. Disse “sacro” impostando la voce, e spiegò che sua madre addirittura baciava perfino una briciola prima di buttarla via. Io mi vedevo con il pisello duro infilato dentro il pane, lí lí per arrivare, e la madre di Carlitos che baciava la punta. Diventai tutto rosso e cambiammo argomento.
Su suggerimento del padre di Carlos, prima di fare il trucco visitammo il Museo della Polizia, dove avremmo potuto trovare un fiore azteco. La nonna era sicura che fosse quello del Parco Giapponese. Cercammo l’indirizzo in una guida e andammo in centro.
Durante il viaggio in treno parlammo del “Ragazzo tagliato” e dell’enigma del fiore. I dubbi più tortuosi che cercavamo di comunicarci erano molti. Riguardavano il punto dove si sarebbe dovuta sezionare; se aveva o no la fica; se qualche chirurgo le aveva fatto un altro orifizio per il suo nuovo stato; se le erano rimasti dei moncherini di gambe o se il taglio le era stato fatto di netto. E il taglio era sopra o sotto l’ombelico? Ragionavamo di tutto questo perché immaginavamo di trovarla lí, nel Museo, sotto vetro, galleggiando nella formaldeide. Solo che non l’avremmo mai trovata viva. Un fiore appassito, ma umano. Entrammo al Museo tremando.
Quello che riuscimmo a vedere ci deluse. La trovammo nella sala delle truffe e degli inganni. Era mezzo manichino vestito da zingara di fronte a un globo bianco. In una targhetta c’erano scritti tutti i furti e le fughe che aveva fatto nella Casa del Pellegrino del santuario di Luján.
Ce ne andammo presto. E Carlos rimase con la voglia di salire al primo piano, dove c’era un settore del museo proibito ai minori, qualcosa che aveva a che fare con la medicina forense. Era convinto che lí avremmo potuto trovare le gambe sezionate di un fiore azteco. Se le immaginava con le scarpe con i tacchi alti, immerse nella formaldeide.
Lui immaginava quello che io non vedevo della metà del trucco.
- Cari vicini -dico, rivolto a tutti gli occhi. Sono vestito con il grembiule che avevo usato fino alla seconda media; il mio corpo non era poi troppo cambiato da allora, e a Carlos quel modo di presentarsi non lo disturbava, lo accettò fin dalla prima prova.
- Mi presento, sono il chirurgo primario dell’Ospedale di Morón, Dottor Fabio Elmago. Elmago è il mio cognome materno.
Tutti ridono, meno la ragazza madre che si è vestita con un camicione tipo voile, probabilmente fatto con la tenda di casa sua. Senza dubbio vuol far vedere a tutti che è incinta. La nonna abbassa un po’ le luci rosse e accende uno spot di luce bianca intensa, che dovrebbe dare l’idea dell’illuminazione di una sala chirurgica. Lo spot lo avevamo fatto con una latta di olio Cocinero e un portalampade, seguendo le istruzioni del supplemento Decoralia di Natale. Carlos è disteso sulla cassa, che a sua volta è appoggiata sui cavalletti, ed è coperto da un lenzuolo bianco. Ci sono quasi venti persone. Essendoci anche i genitori di Carlos, Maria Marta non si strofina con ernesto che, “per puro caso”, è seduto accanto a lei e guarda di sottecchi per capire se la madre si fida della cosa. Comunque questa è la mia serata, e nessuno me la rovinerà. Sono venuti anche la cilena dell’alimentari col marito, i Rezzanni, le sorelle Rapazzi, i Martínez, il presidente della Società di Fomento e il verduraio, che è in buoni rapporti con i genitori di Carlos. Si chiama Gutiérrez, è pelato ed ha l’abitudine di fare i complimenti a tutte le donne, dalle bambine fino a quelle di sessanta e più. Per lui andrebbe bene anche la nonna. A Maria Marta, una sera che stavamo camminando, disse: “vieni che ti lubrifico le tubature, principessa”. Io mi arrabbiai ma Maria Marta si mise a ridere. Era quando cominció a darsi sulle labbra il rossetto color fucsia. Continuo:
- Cara gente del quartiere, signor presidente della Sala, distinto pubblico in generale. Ieri notte ho ricevuto una chiamata urgente da un vostro vicino che mi sollecitava una di quelle operazioni che io eseguo nel mio Ospedale. Questo buon uomo, don Carlitos, mi disse che era al corrente, dalla Mecánica Popular, che io negli Stati Uniti avevo realizzato operazioni a una squadra intera di basket del Michigan. Si erano stufati di essere alti e volevano lavorare come nani in un circo. Sí, è cosí, non ridete. Maria Marta, per favore non ridere.
Lei arrossisce. Il pelato le si avvicina pericolosamente da dietro. Lei chiude gli occhi.
- La massima aspirazione di questi ragazzi era quella di formare una squadra di nani che giocassero a basket. Si consultarono con me nell’Ospedale e io dovetti andare su in Michigan. Otto elementi: cinque giocatori e tre riserve. L’allenatore era l’unico soddisfatto della propria altezza: chiaro, misurava 1,57, come me. L’altezza migliore, gli dissi, ma loro insistettero che non volevano superare un metro e venti. La loro media era 1,98. Come vedete, una faccenda difficile. Ma io fui all’altezza della situazione e… -faccio una pausa. Ernesto reagisce alla battuta con un sorriso. Il presidente è cosí rigido che sembra inamidato. Il pelato, in piedi, appoggia le due mani sulle spalle di Maria Marta e, sicuramente, la sta puntando con il pisello (ahi, come deve avercelo duro) contro la schiena, perché lei ha uno sguardo di circostanza perso nel nulla.
- Tutti sappiamo quel che è accaduto. Immagino che leggiate Mecánica Popular come Carlitos, che in uno dei suoi ultimi viaggi negli Stati Uniti ha potuto verificare la felicità di quegli otto nani giocatori di basket: non solo furono assunti nel circo New World City, ma firmarono anche un contratto con la Walt Disney Corporation per partecipare ad una nuova versione di Biancaneve con attori reali-.
Tutti stanno seguendo la storia con attenzione, meno il verduraio e Maria Marta, che definirli incollati è dire poco. Ernesto la tira con una mano perché presti attenzione. Faccio scorrere il lenzuolo che copre il corpo di Carlos.
- Ed ecco qui Carlitos -dico rivolto al pubblico. Carlos apre gli occhi-. Sta facendo la siesta, Carlitos?
- No dottore.
- È sveglio del tutto?
- Sí dottore.
- D’accordo. Ora chiedo cosa ne pensa il pubblico, perché sono stato io il primo a sorprendermi. Per telefono, dalla voce, diciamo pure dalle sue aspirazioni al nanismo -faccio un gesto con la mano indicando un’altezza minima- sembrava un tipo alto. Per questo sono venuto con tutti gli strumenti chirurgici, ma mi rendo conto che non è un gigante, ma che è alto… -passo la parola a Carlos, steso sulla cassa. Lui dice:
- Un metro e cinquantuno.
- E proprio qui sta il quid della questione! -grido-. Gli chiesi: signore, essendo già cosí basso, perché vuole operarsi? E lui che mi rispose? -guardo il pubblico; nessuno risponde. Il pelato si mette ora accanto alla madre di Maria Marta, e nella penombra che li protegge sembra che le stia afferrando una mano avvicinandosela ai pantaloni. Ora, fissando Carlos negli occhi-: Che mi rispose il signore?
- Per la legge della mano.
- Ora è tutto chiaro, no? -dico, formando una elle con l’indice e il pollice della mano destra. Faccio la L orizzontale e verticale, alternativamente-. Siamo grandi -dico. La gente sorride-. Quest’uomo è convinto che diminuendo la statura gli aumenterà la lunghezza della sua virilità. Per questo vuole sottoporsi alla sezionatura.
Maria Marta dice:
- Non capisco.
Io aggiungo, scoprendo gli altarini di fronte ai suoi genitori:
- Spiegaglielo tu, ernesto, per favore.
La madre, ritirando la mano troppo a contatto col pelato, si sporge per vedere a chi mi riferisco.
- Io ho detto a Don Carlitos che sarebbe rimasto troppo basso, ma a lui non gliene importa. È sicuro che non se ne pentirà?
- No -risponde lui.
- Sicuro sicuro?
- Sí dottore.
- Sicurissimo?
- Sicurissimo.
- Per caso non vuole prima consultarsi con il Presidente della nostra gloriosa Società di Fomento e della Sala di Pronto Soccorso? Non vuole sapere cosa ne pensa lui?
- No dottore. Ringrazio tutti di essere venuti qui ad assistere all’intervento, ma non voglio il parere di nessuno.
- Neanche dei suoi genitori, lí in fondo?
- No dottore.
- Né della sua cara sorella?
- No dottore. Sono padrone del mio proprio corpo.
- Allora pronti -dico, a testa china, verso il pubblico-: Spero davvero che non abbia di che pentirsene. Nonna, le luci.
La nonna spenge il riflettore e aumenta l’intensità delle luci rosse con il potenziometro. Avevamo migliorato la situazione luci seguendo il Primo manuale dell’elettronica delle Edizioni Hobby. Carlos scende dalla cassa abbassandosi con cautela, per non far scivolare gli stivaletti dai piedi tutti unti. Apro la cassa e tiro fuori una enorme sega. Aiuto Carlos a stendersi sul letto improvvisato: rimane con gli stivaletti che sporgono da un foro e la testa che fuoriesce da un foro sul lato opposto. Chiudo il coperchio e lego la cassa con la corda, di quella che si usa per tendere i panni. Sto in piedi sul banco dove è stata collocata la cassa. Il silenzio è totale. Perfino il pelato sta guardando. Mi copro la bocca con un fazzoletto bianco, come se fosse una mascherina.
- Le persone che soffrono di problemi cardiaci, o comunque facilmente impressionabili, hanno la possibilità di abbandonare la sala -li avverto. A Carlos-: Lei sta bene?
- Sí.
- Tutto a posto?
- Sí dottore.
- Crede che avrà bisogno di anestesia?
- Come crede lei, dottore.
- Lei è una persona, come dire… che si spaventa per un doloretto da niente, o è un vero macho argentino?
- La seconda, dottore.
- Ovverossia, che può resistere. Non se ne uscirà poi con urla…
- No dottore.
- Né pianti.
- Non piango mai dottore.
- Cosí va meglio -dico, e comincio a segare secondo la linea segnata. Questo esercizio richiede il suo tempo, e di tanto in tanto guardo gli stivaletti che non si sono mossi, guardo lui e gli domando-:
- Tutto bene?
- Appena un doloretto. Una cosa da niente -risponde.
- Posso continuare?
- Certamente dottore.
Quando finisco, scendo dal banco e lascio la sega per terra. Maria Marta si copre la bocca con le mani. Sua madre sta facendo lo stesso gesto, più dietro e in piedi. Allora dico, con voce da poliziotto:
- Fatto.
Mi asciugo la fronte con il fazzoletto che faceva da mascherina. Sto aspettando qualche reazione, un movimento.
- È stata dura. L’operazione più dura della mia vita.
Metto il fazzoletto nella tasca piccola del camice.
- Allora? -dice Carlos.
- Allora niente. Finito.
- Sono davvero più basso?
- Certo.
- Vediamo? -chiede.
- Lei per ora non vedrà niente -gli rispondo-, perché ha bisogno di riposo. Però lo posso far vedere a loro. Se vogliono.
Un mormorio percorre il garage.
- Va bene -dico, salendo di nuovo sul banco. Facendo forza con le mani, faccio scorrere la parte dei piedi una quarantina di centimetri sui cavalletti. La metà che sostiene la testa sorride; mi metto al centro e passo il braccio sulla zona del taglio. È incredibile, perché sto accanto a Carlos, è tutto un trucco, ma lui è talmente rannicchiato che non si vede. La cosa incredibile è che possa stare in quello spazio. L’altra parte, quella sezionata, sembrava che contenesse le sue gambe tagliate, i suoi fianchi, le palle, il pisello, i suoi piedi infilati negli stivaletti di Maria Marta, che ora abbraccia ernesto senza capire, senza dissimulare, senza sapere come si fa. Questo è magia, sto per dirgli, ma mi trattengo per far dire a Carlos la battuta della nostra sceneggiatura:
- Lei, dottore, mi assicura che ora sarò più dotato, secondo la legge della mano?
Penso: ma perché più dotato, ce n’era forse bisogno? Sorpreso dalla mia rigorosa professionalità, gli dico:
- No signore. L’unica cosa che le posso garantire è che da ora in avanti lei sarà molto più basso.
- Ah no! -grida infuriato-, se non ho la sicurezza di quello che volevo, meglio tornare all’altezza di prima.
- Ma io l’ho già tagliata!
- Non mi importa -con voce incapricciata.
- L’avevo avvertita. Una volta tagliato è impossibile…
- Impossibile? Allora faccia l’impossibile. Subito.
- Vediamo -dico, scendendo dal banco. Spingo la metà dei piedi fino ad arrivare al taglio. La cassa torna ad essere una sola.
- Non credo che riesca bene… -dico, rivolto al pubblico.
E, rivolgendomi a Carlos:
- Guardi che l’onorario me lo deve lo stesso, eh?
- Non c’è problema, lo paga mio padre.
Il falegname scoppia in una risata fragorosa.
- Va bene, se è cosí… -sciolgo lo spago e sollevo il coperchio. Carlos esce intero. Appoggia le suole degli stivaletti scivolosi forse in eccesso (troppa vasellina) sul pavimento piastrellato e io faccio un respiro profondo, per la prima volta. I vicini si alzano per applaudire. Esibiamo, io e Carlos, i pezzi della cassa, lo spago, la sega. La nonna grida più di quanto la sua sordità indicherebbe come accettabile. Maria Marta mi abbraccia e il ragazzo rimane indietro, controllando da vicino, osservato a sua volta dalla madre di lei, stavolta sotto le luci bianche del garage. Maria Marta mi dà un bacio. Non sa che le ho visto le tette nella foto, quelle tette che ora spio attraverso la scollatura. I ragazzi e i grandi toccano la cassa, senza potersi capacitare. Emozionato e vincente, annuncio a tutti:
- Prossima esibizione: “Il fiore azteco”.
La nonna fa cenno di no con la testa. Con la sufficienza e il decoro che le vengono dalla sua età, dice:
- Il fiore azteco è una donna, non un uomo.